Non sono un tipo da meditazioni e riesco poco, mio malgrado, a esercitare l’attitudine a una piena serenità esistenziale solo attraverso il pensiero, gli esercizi, in un manuale, in corpus di regole.
Ma questa è un’altra storia. Io, e questo è invece il punto, da qualche mese la trovo con l’azione agreste, con il lavoro di fatica, indaffarandomi da novello Cincinnato nell’aia e nel cortile, piantando virgulti, zappando qualche fazzoletto di terra, spostando pietre, toccando, anzi carezzando la crescita di piante e alberi, le loro nuove gemme, le ricrescite, i ributti, con le mie stesse mani. Cercando quasi un rapporto fisico con la natura, o meglio, l’interazione della mia fisicità con le durezze della terra.
Stamani mi sono alzato alle 6.30. Solita notte non pulitissima, con le orecchie tese alla Mignola, la bambina più piccola, sempre molto inquieta nei suoi sogni e con dei piccoli lamenti che ci spaventano facendoci tornare in mente i giorni del vomito e dell’ospedale.
Fuori troneggiava un’alba sospesa, indefinita, umida e pallida, satura di pioggia, con la volontà della primavera ma con ancora tutte le reticenze dell’inverno che, non avendo persiane o tende, mi è entrata violenta in casa, fino al letto, spingendomi quindi ad alzarmi ben prima delle amate consuetudini.
Le finestre hanno offerto il solito teatro naturale, dove uccelli di varie razze e stazze saltavano fra i rami del nocio e dei giuggioli, scuotevano i fiori del susino, zompettavano fra le tegole del fienile, cinguettavano appollaiati ai davanzali in pietra, pigolavano in voli incerti.
Mi sono fatto una spremuta e indossato i miei pantaloni di velluto insieme a un ampio e sformato maglione, tanto infeltrito quanto caldo, e sono uscito fuori: pur con parziale mobilità causa osso sacro lussato (la caduta di due domenica fa ha lasciato segni, ahimè), ho piantato delle piantine aromatiche: salvia a foglia grande, salvia variopinta e santolina, con tutti i tecnicismi necessari a eseguire una operazione semplice ma delicata. Ho poi spostato un po’ di terra verso un’altra zona. Mi sono beato delle prime fioriture. Quella del mandorlo, per esempio.
Ma a quel punto i dolori sacrali si erano già fatti violenti. Erano quasi le 7.30. La famiglia si era già affacciata curiosa a vedermi, come si fa con un animale esotico in uno zoo, fra chi si stropicciava gli occhi assonnato e chi reclamava una colazione più buona. La solita quotidianità ciarliera e confusionaria di un giorno di una settimana normale. Da lì a poco, noi adulti al lavoro, quello d’ufficio, e le bambine a scuola.
Il sedere mi faceva molto male, sì, ma in quell’ora scarsa avevo trovato quella rara e fugace pienezza che mi aveva fatto stare comunque bene, anche solo per un po’.