Nelle colline di Montefiesole che si stagliano sopra Bisarno si trova la Pievecchia, una vecchia chiesa ormai sconsacrata, con la sua torre, alta sopra i vigneti, gli olivi e i cipressi della fattoria di Grignano.
Queste colline sono state teatro della lotta partigiana, condotta nelle macchie e nelle alture fino al Monte Giovi, che sovrasta tutta la valle, negli ultimi confusi e sanguinari anni della Seconda Guerra Mondiale, quando, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, i tedeschi non erano più i nostri alleati e il re si dette a ignominiosa fuga. Si legge nel portale di resistenzatoscana.org come “l’8 giugno 1944 un gruppo di partigiani proveniente da Monte Giovi penetra nella caserma della guardia nazionale repubblichina di Pontassieve e s’impossessa di armi e munizioni e si ritira a bordo di un camion. Lungo la strada del ritorno i partigiani si fermano alla Pievecchia. In una delle case vi trovano due soldati tedeschi e ne segue uno scontro in cui un soldato muore, mentre l’altro riesce a fuggire. Nella rappresaglia che segue i tedeschi rastrellano tutti gli uomini che possono trovare a Pievecchia e li uccidono a colpi di mitra. 14 persone perdono la vita”.
Noi, ieri, 25 aprile del 2018, all’ombra di queste colline, abbiamo accolto un gruppo di amici per un pic nic aperto e multiculturale a Bisarno, con birre tedesche, vini francesi, tortilla spagnole, couscous mediorientale, pane pugliese, bufala campana e altri piatti di ogni provenienza e stile: un corto circuito di opulente libertà gastronomica in una vecchia casa che ha vissuto per secoli la povertà contadina, l’oppressione della fatica del lavoro, oltre a due guerre e una dittatura.
Il 25 aprile del 1945, 1 anno dopo l’eccidio della Pievecchia nonché 73 anni fa, l’Italia si era proclamata libera dal fascismo e dai tedeschi e nell’arco di poche settimane le principali città italiane, dal sud verso nord, erano diventate aperte, liberate.
Ecco, per un uomo come me di relativi interessi politici, di fioche passioni civiche, di caracollante fede, sordo alle regole, di un certo nichilismo lenito solo dal riso beffardo, ecco, un valore solo e assoluto mi infiamma, mi fa camminare in salita fra le strade non battute, mi sprona al confronto, a identificarmi in una polis, in una comunitá: la libertà. La libertá di credere a chi si vuole, di non interferenza, di amare quello che ci fa stare bene, di tentare di realizzarsi secondo il proprio talento, rispettandoci e attraendoci ognuno delle differenze dell’altro.
Dopo il pranzo ho proposto di incamminarci su verso la Pievecchia. “Sié, fin lassù?”. Sgombrate le timide reticenze, siamo partiti e circa un’ora dopo siamo arrivati in cima alla collina, chi con una bambina a pentolino, chi con un mazzolino di papaveri, fieno e colza in mano, chi con un giaggiolo, altri di piede spedito e alcuni a passo incerto. Sfilacciandoci e poi raggruppandoci. Chi per strade più erti e brevi, chi più comode ma lunghe. Scattando fotografie e condividendole in un attimo, parlando di tutto, pregustando un po’ di acqua fresca, anticipando col pensiero l’idea della imminente cena con gli avanzi – tanti – del pranzo di poche ore prima (“ma con tutto quello che s’é mangiato come fai ad avere fame?” – “Oh, non vorrai mica buttare via tutto quel cibo?”).
Nel punto più alto in cui siamo arrivati, dopo aver tagliato per una oliveta, una vecchia stalla e poi le vigne del Chianti Rufina, la Pievecchia stava lì, immobile, a pochi passi.
Carica di simboli, di ricordi nefasti e di una bellezza senza tempo. L’ho guardata, l’ho indicata agli altri, brevemente ho accennato la storia che nessuno dei miei amici conosceva: “É accaduta una sorta di Stazzema, un eccidio di partigiani qui”.
Sudato, controvento, con la barba rossa e grigia dei miei anni, profondamente grato del bene più prezioso e di chi ci ha lasciato la vita per affermarla, la libertà: “‘Gnamo ragazzi, forza, avanti, adesso é tutta discesa, il grosso é già stato fatto, si fa presto”.