Seoul. Viali gonfi di auto. Qualche altare. Ogni tanto una pagoda. Complessi residenziali che strizzano l’occhio all’architettura socialista. Arditi grattacieli dove danzano i led dei grandi marchi internazionali. In corsa verso una identità impostata sul modernismo tecnologico, disegnata di vetro e acciaio, da cui affiorano, rare, vestigia di un passato in bilico fra il comunismo russo-cinese e l’impero nipponico.
Faticosa, si, poiché vissuta di corsa come i suoi abitanti. Una metropoli dove ogni spostamento dura almeno un’ora, persi nel traffico o più semplicemente in un concetto di centro città diffuso ed enorme. Dal vetro del taxi grondante pioggia – la mia specola privilegiata per osservare – mi sono perso più volte a guardare le persone, soprattutto le giovani donne nel quartiere di Gangnam (esatto, quello della canzone). Guardare le persone é uno dei modi che ho per capire i posti, per provare a immergermi nella loro cultura, per fantasticare delle loro vite. Le ho trovate affascinanti, alcune molto belle, attente al modo di vestirsi non necessariamente occidentalizzato: mi dicono che in Corea del Sud il ricorso alla chirurgia plastica é pressoché la norma.Faticosa, ma dai sapori forti, in bilico fra il piccante e l’acidulo, fra le fermentazioni (adesso di gran moda in tutte le cucine mondiali per la loro sanità e che credo aiuteranno a far conoscere meglio una cucina altrimenti globalmente e ingiustamente ignorata) e le grigliate, fra i crudi di carne e le zuppe di brodo e pasta con verdure e carne.
Faticosa perché non troppo imbrigliabile in categorie geografico-culturali: più giapponese che cinese, soprattutto per il rituale intimo e senza scarpe dei loro ristoranti tradizionali, per l’ordine e la pulizia che dominano in città e, anche e spoprattutto, per i wc computerizzati che ti nettano il sedere dopo ogni seduta al bagno (ah, imprenscindibili!). Ma mai sottolineare i retaggi dell’una o l’altra cultura: la Corea del Sud, mi ribadiva il mio collega Jio, cicerone e traduttore (nessuno parla inglese), é orgogliosamente fiera della sua indipendenza nazionale, recente, e ovviamente gastronomica.
Faticosa, si, ma che mi ha accolto con orgoglio: mi ha fatto parlare in esclusive scuole di vino, beneficiare di interviste a tutto tondo, di cene-degustazione, di servizi fotografici in cui rappresentavo il gusto e la cultura italiana, non solo Ruffino. Ruffino ha una nuova distribuzione in Corea del Sud e in questi giorni ho avuto l’onere e l’onore di presentare il concetto con cui ci promuoviamo, che altro non é che un certo saper vivere all’Italiana, che più ci allontaniamo dall’Italia più trova forza e valore: “la vita Ruffino”, la vita come la viviamo noi italiani.
Faticosa, eccome, nel suo enorme e distante aeroporto: ma il più bel aeroporto mai visitato, fra esperienze di alta tecnologia provate (con la realtà virtuale sono divenuto un portiere di calcio, coi più grandi calciatori che mi tiravano in porta), un parco tropicale fra meravigliosi alberi e fiori, un pianista al centro di ardite architetture di acciaio spazzolato bianco e luce.
Faticosa, esautorante, come le notti in cui il jet jeg ha bussato, due su due, e quel poco che ho dormito lo ho fatto fra cattivi sogni e immagini molto vivide. E faticosa come la nausea che ha sempre strisciato in questi giorni di continui spostamenti, ore di auto, pioggia quasi sempre battente…se non l’ora prima della partenza, quando ho potuto scendere dal turbine di incontri lavorativi e diluvi, universali e ho passeggiato lungo il municipio fino al palazzo imperiale, accompagnato da uno splendido sole sventagliato da un fruttifero vento primaverile.
Faticosa Seoul, che fino a ora mi faceva venire in mente solo Mila (e Shiro) e la sua Corsa verso le Olimpiadi, o Byron Moreno col gol di Anh che ci estromise dai Mondiali del 2002. O la canzone idiota di qualche anno fa. E che fosse, fra le due Coree, quella buona. Seoul, che si pronuncia soul, anima, che ha saputo farsi volere bene in pochi giorni ed entrarmi dentro. Senza neanche troppa fatica.