Agosto 2008. L’astronave – un pulmino scassato con aria in-condizionata per lenire l’afa ottomana – sta per arrivare a Konya, la città dei dervisci che ruotano. Siamo un gruppo di 8 amici a zonzo in Turchia in uno dei più belli fra i nostri viaggi interstellari: tanta voglia di vivere, scoprire mondi lontanissimi e i villaggi di frontiera alla fine della strada.
Con quell’astronave, negli anni successivi, nomadi, viandanti in cerca di ospitalità, abbiamo vagato, esperito, riso. L’essenza stessa del viaggio. Anno dopo anno. Ci siamo trovati in “Mesopotamia”, la valle fra i due fiumi che vide alle sue sponde Isacco di Ninive. Poi il Medio Oriente della Siria, Giordania, Libano. Israele. E abbiamo provato il “Mal d’Africa”. La “Stranizza d’amuri” per la Sicilia. Con gli stessi cosmonauti abbiamo cantato all’unisono “Alexander Platz”, nel mezzo di una fitta nevicata che ci bruciava gli occhi, ai piedi della iconica torre della televisione della piazza berlinese. E la prima volta a San Pietroburgo, in una infinita notte bianca di giugno, che emozione cercare Stravinskij, camminando la via, la Prospettiva Nievskij, dopo aver visto Amore e Psiche del Canova all’Hermitage e sentire, profondamente sentire, una profonda e rara empatia col tutto, che si prova davvero poche volte nella vita: un rapimento mistico e sensuale.
Non avevo ancora neanche 17 anni quando il nostro professore del liceo ci aveva assegnato come “tema” di esame una traccia bellissima: l’analisi testuale di “Un’altra vita”: “Certe notti per dormire mi metto a leggere. E invece avrei bisogno di attimi di silenzio. Certe volte anche con te e sai che ti voglio bene. Mi arrabbio inutilmente senza una vera ragione. Sulle strade al mattino il troppo traffico mi sfianca. Mi innervosiscono i semafori e gli stop. E la sera ritorno con malesseri speciali. Non servono tranquillanti o terapie. Ci vuole un’altra vita”. Orgogliosamente avevo sviluppato il testo in un elaborato ampolloso e ridondante, non un gran tema onestamente: la mia ansia da prestazione mi aveva portato a strafare…
Franco Battiato andrebbe insegnato a scuola e ora che non c’è più è una giornata difficilissima. Ma non sono triste. Un pianto strano, agrodolce, nostalgico che non è quello straziante, assoluto, irreparabile che ho pianto quando è morto mio babbo. “Vincerà lo spirito, la bellezza e la cultura”, raccontava Franco Battiato, sublimatosi, avrebbe detto lui, dopo una brutta malattia, che ne ha anticipato l’ascesa verso l’immensità, nella sua casa accovacciata sul tonitruante e irrequieto Etna di questi ultimi mesi.
In questi giorni l’eco mediatica che sta trovando la ferale notizia, purtroppo attesa, mi rende impossibile qualsiasi normalità. Tutti ne parlano, ne scrivono, in contrasto con la piccola e chiusa nicchia di persone che lo amavamo e ne cantavano ipnotizzati il profumato fiore delle sue poesie musicate: canzoni ok – ritmi peraltro apparentemente semplici e orecchiabili – ma testi visionari, suggestivi, sognanti e raffinatissimi. Le sue canzoni sono cantate in monasteri di clausura, da operai al lavoro, nelle serie televisive e nei teatri, da adolescenti inquieti e da saggi attempati.
È vero: più si invecchia, e più affiorano ricordi lontanissimi, come se fosse ieri. Nessun tempo, nessuno spazio: le estati coi miei genitori in una Sardegna pre-turistica, ai primi anni ‘80, in una spiaggia di sabbia finissima, il loro amore, l’eco di un cinema all’aperto, i gabbiani, la perfezione di una famiglia a tre con gli occhi gorgoglianti di un me bambino non ancora decenne, e, a proscenio, un juke-box brilluccicoso che suonava ripetutamente “Summer on a Solitary Beach” e che mi aveva iniziato, inesorabilmente, verso un culto precocissimo e quasi religioso di Franco Battiato.
Battiato non è stato un musicista. Ha praticato – soprattutto attraverso la musica, ma anche con la pittura, la cinematografia e il teatro – la spiritualità e la ricerca dell’essenza. E lo ha fatto con ficcante gentilezza, garbo, ironia. Forse è per questo che ha attratto, magnetizzato così tante persone in una venerazione che per alcuni, quorum ego, ha del mistico e dell’assoluto.
Non c’è civiltà sepolta, periodo storico, personaggio misterioso, città esotica che Battiato non abbia ridipinto con le sue parole. Le sue canzoni sono viaggi, avventure, voli imprevedibili e ascese velocissime, codici di geometrie esistenziali – come canta nella kantiana “Gli Uccelli”. Né si è poi negato la scrittura di pura filosofia trascendentale (regalatevi l’ascolto delle meno note “L’ombra della luce” o l’assoluta perfezione di “Lode all’inviolato”), né la critica sociale e civile (da “Bandiera Bianca” a “Povera Patria”).
E l’amore? Cosa è l’amore per una persona che non si è mai sposata e non ha mai avuto figli, nel nome di una disciplina rigorosissima nella ricerca spirituale, che non ha niente della rinuncia e della misantropia: Battiato non ha mai rinunciato ai rituali degli affetti e delle consuetudini (“i desideri non invecchiano quasi mai con l’età”), ai piaceri della carne (“bisogna pur che il corpo esulti”), alla sottolineatura della bellezza ipnotica e ammaliante della donna (qui andate a tutto volume con “Sentimento Nuovo”), e al racconto di amori forti, animaleschi, chiaroscurali e nostalgici, come ne “L’animale”: “Vivere non è difficile, potendo poi rinascere. Cambierei molte cose: un po’ di leggerezza, e di stupidità”. Quante volte me lo sono detto a fronte di amori finiti, scelte sbagliate, eccessi di cerebralismo?
Mi è impossibile non citare altre due odi di Battiato che scolpiscono l’essenza e la natura dicotomica del sentimento, e la possibilità stessa di poterlo trascendere in una forma ancora più alta: “La Cura” (“Io sì, che avrò cura di te” – chi non ha vagato per i campi del Tennessee?) e “E ti vengo a cercare”. Sapete che vi dico: che la versione del klein Johannes, di Giovanni Lindo Ferretti in “Linea Gotica”, è ancora più struggente. E una parola sola di tutto il testo viene modificata: “L’emanciparsi dall’incubo delle passioni” di Battiato diviene “L’emanciparsi dal vincolo delle passioni” di Ferretti.
Queste opere d’arte saranno ascoltate fra 500 anni. Sono prova di quello che può raggiungere l’uomo e una testimonianza di umanesimo da offrire agli alieni, alle cavallette, o a chi verrà dopo di noi in questo pazzo mondo pandemico: gli uomini hanno potuto questo: ascolta!
Due parole sulle sue muse: meravigliose e squisite interpreti che hanno ingigantito il lascito imperituro di Battiato: l’Alice di “Per Elisa” e la favoleggiante e incantevole “I Treni di Tozeur”, ennesimo capolavoro meno noto del maestro ambientato fra i miraggi del lago di Tozeur, in Tunisia, la Milva di “Alexander Platz” della Berlino Est negli anni del Muro, i disperati graffi di Giuni Russo di “Un’estate al mare” o di “Lettera al governatore della Libia”. E cosa dire degli storici collaboratori? Fra i tanti, tantissimi il virtuoso violinista Giusto Pio e il filosofo Manlio Sgalambro.
Potrei dilungarmi ad taedium e diventare patetico e nozionistico, finendo per avvilupparmi in una sorta di “Chanson egocentrique”. Solo un ultimo episodio: al concerto a Villa Fabbricotti, a Sesto Fiorentino, nel 2009, riuscii, supplicando sotto il palco, a farmi cantare “Prospettiva Nievskij”: il maestro mi individuò fra la folla (non enorme, ma significativa), ingigantendo il mio ego, indicandomi e promettendomi di farla con un laconico: “Va bene, va bene…”. Piango anche ora a ricordare quel momento imperituro, scolpito nella mia anima per sempre, in cui cominciò il proverbiale incipit “Un vento a trenta gradi sottozero…” che immediatamente mi fece trascendere nella fredda San Pietroburgo della rivoluzione, sferzata da venti e dalla neve e riscaldata da lampade a petrolio.
Ancora una volta, e per sempre, il mio maestro mi insegnò a trovare l’alba dentro l’imbrunire.
E allora continuerò a cercarla: viaggiando in buona compagnia, tessendo relazioni gentili, carezzando i ricordi, prendendomi cura di me e degli altri. Grazie di tutto Maestro, e buon passaggio.