È stato un fine settimana strano: lo avrei potuto definire splendido se non fosse stato tragico per la morte di un ragazzo di 30 anni, capitano della mia squadra del cuore, la Fiorentina, avvenuta di notte in ritiro a Udine.
È domenica sera, quando già di solito la malinconica attanaglia di suo. Abbiamo cenato tardi, dopo una giornata catatonica, atipica, vissuta con amici a pranzo, arrivati 10 minuti dopo la notizia, e poi a passeggio per le colline qui sopra. Adesso sto finendo, da solo, una delle bottiglie avanzate di oggi, il Bucerchiale di Selvapiana. Sono al secondo bicchiere.
La vita è un mistero. Ogni volta non riesco mai a trovarne un senso. Sto cercando di imparare ad aggrapparmi al momento. Agli attimi pieni che comunque ci regala. Agli affetti. Alla bellezza delle cose, come le inquadrature che la mia macchina fotografica riesce a fare, come i miei occhi si sono abituati a cercare, certe belle parole che riesco a scribacchiare, al gusto e ai profumi, che accendono epifanie lontanissime e che mi guidano nella quotidianità come se fossi un vecchio lupo.
Oggi sono caduto dalle scale. Ho rischiato di farmi male: sono atterrato di sedere per fortuna e adesso l’Oki sta finalmente facendo un po’ effetto, insieme al vino. Ieri mentre esploravo con mio babbo il solaio di casa dei miei genitori, la scala dove mi ero arrampicato si è aperta e mi sono trovato per terra, sopra a mio babbo anche lui caduto ma da una distanza più piccola. Due incidenti in 24 ore, mai capitati in 41 anni, potenzialmente pericolosi dai quali sono indenne, a parte le ammaccature e il rintronamento. Quanta forza ha il destino nella nostra vita? Pare davvero che sia tutto scritto se un atleta controllato periodicamente ci lascia nel sonno per un infarto. Se un amico trova le motivazioni per suicidarsi malgrado un figlio. Se ti ritrovi al Meyer con la bambina per un sospetto tumore cerebrale. O col culo per terra senza neanche aver capito come hai fatto. Come se si fosse marionette in un teatro più grande di noi, orchestrati da chissà chi.
Ho letto prima su Facebook un post di Burioni, celebre medico pro vaccini, secondo cui nel futuro saremo in grado di diagnosticare il problema di Astori che poi gli ha causato il decesso e che dobbiamo solo continuare a studiare. Mah. No, non ho questa visione della vita, fiduciosa nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’uomo. “Noi siamo della razza di chi rimane a terra”, per passare da Leopardi a Montale. E sì che vorrei avere l’ottimismo dello scienziato; mi piacerebbe altresì una balsamica consolazione ultraterrena, una fede, invece ho sempre amato il disincanto amaro e decadente da letterato, le parole che provano a cantare il nulla, senza spiegarlo, e ad ammantarlo del bello. Della bellezza. La bellezza quella sì la cerco dappertutto e mi ci appiglio.
La bottiglia è finita. Ho perso un po’ di lucidità e vivo quel momento piacevole in cui il vino fa stare bene. L’analgesico ha quasi concluso il suo effetto e il mio sedere, i miei reni, i miei lombi sono di nuovo indolenziti e faccio fatica a trovare un posto sopra questa seggiola. Su non sento più la Laura in lotta con le bambine per metterle a letto. Si sono addormentate tutte. “Babbo io non sono triste perché Astori non lo conoscevo – ma te lo conoscevi babbo?”, mi ha detto prima Matilde mentre in TV scorrevano coccodrilli su coccodrilli. Purtroppo non è così semplice ma ancora una volta i bambini ci insegnano a guardare avanti col cinismo che è loro proprio, che altro non è che l’istinto dell’evoluzione. Mi asciugo una lacrima. Mi alzo, vado a sparecchiare: domani è un altro giorno. Scrivere mi ha fatto bene e mi ha fatto male. Al solito. Ciao Davide.