Oggi è stata una giornata davvero faticosa. Secchi e secchi di calcinacci portati via senza sosta, fra la polvere e l’umido. Sono arrivato al pranzo del mezzogiorno con una fame aggressiva, sana e borbottante già dalle 11.30. Come non ho mai quando lavoro in ufficio. In Toscana utilizziamo una parola desueta e un po’ nostalgica per il pranzo del giorno cucinato a casa, il “desinare”. Il desinare richiama infatti l’interruzione del digiuno, quando il mangiare non era per niente scontato, di pasti se ne facevano pochi e quello del giorno era quasi sempre il principale e il più sostanzioso anche perché doveva fornire le giuste energie per il lavoro del pomeriggio. Il desinare ha profondi legami con quel passato. E’ un pasto consumato molto presto, attorno a mezzogiorno. Non è quasi mai un pranzo leggero o di impronta moderna. E’ lento perché prevede il mettersi a tavola e gustare più portate, il rintuzzarsi il tovagliolo nel petto per non sporcarsi di sugo, la crosta del pane sciocco messo sulla tavola da spelluzziccare nei brevi intervalli fra un piatto e l’altro, un cicaleccio continuo e garrulo di chiacchere saporite e veraci. Ogni donna ha nella cucina di casa il suo regno assoluto e gli strumenti e i gesti con cui ossequiare questo rito di affetti semplice e profondo. Il mestolo di legno per girare il sugo, la padella a sfrigolare, gli “odori” per soffriggere, il battuto con la mezzaluna, l’asciughino per tenere le mani sempre pulite e asciutte, il coltello buono per affettare il pane, la stufa per tenere al caldo le vivande, la madia per contenere il pane, la caffettiera che non deve essere mai lavata sennò il caffè non viene buono. Si desina sempre in cucina, e quasi sempre mentre la mamma continua a cucinare, si siede un attimo e si riappropria dei fornelli in una disfida fra “prendine ancora” proferito incombente con spalle erette e un “basta non ne posso più” di risposta dal desinante sempre più accasciato e appesantito. Ancora non si è finito di sorseggiare il caffè, servito bollente, che già si sente lo sciacquio dei cocci a “rigovernare” nell’acquaio.
I piatti proposti sono spesso decisi di gusto, elaborati e molto nutrienti. Si desina con gli avanzi, con piatti creati da quello che si ha ancora in frigo o che sta per deperire: “non si butta via niente, è peccato!”. Bucce di verdure, pastasciutte non finite, verdure un po’ andate sono spunti per preparazioni appetitose e nutrienti. Soprattutto, il desinare incarna un sistema di valori dominato dal ruolo della mamma, o della nonna, che si ingegna a nutrire la famiglia con gusti affettuosi e carezzevoli per abbondanza e sapori. “Cosa vuoi domani?”. “Non ne hai mangiato abbastanza – per caso non ti piace?”. “Prendine ancora, non ti piace?”. Certe domande di mia nonna, ricche di affetto e un po’ di ansia, le mie risposte quasi scocciate e un po’ annoiate, mi tornano ancora oggi a mente. Eppure mia nonna, come altre nonne, e mamme, mi educava e mi amava a suo modo: con gesti, premure e abbondanze. Grazie al cibo e al momento magico del desinare. Ogni volta, nell’attimo faticoso prima di escludermi da quel piccolo mondo antico per andare a costruirmi la mia strada, mi ricordo la mia pignoleria nel non sbattere mai la porta di uscita: la accompagnavo con dolcezza per non far troppo rumore. Era il mio inconscio non volere tradire quello stretto nido saturo di profumi e sicurezze che ancora oggi mi metto addosso quando fuori fa davvero freddo e il ricordo del profumo di pane della madia di casa dei nonni scalda più di un avvolgente cappotto di lana.
Un classico dei miei desinari: la fettina di fegato. La foto è della blogger Sandra Pilacchi. |