Favignana e i Florio

Sono arrivato a Favignana in gommone, in una ventosa giornata di fine agosto, tagliando con abilità le increspature del mare turchese.

Ho chiuso per un attimo gli occhi, turgidi di emozione, immaginandomi di viaggiare a ritroso nel tempo, fino a 150 anni fa, le vele cullate dai venti che dallo Stagnone delle saline di Marsala, in Sicilia, ci accompagnano dolci fino a Favignana, all’abbagliante Tonnara della più grande fra le Egadi, in un caleidoscopio sognante di riflessi turchesi, tufacei e carmini.

Immedesimandomi in un Florio. Vincenzo. Giulia. Ignazio. Giuseppina. Paolo. Franca.

I Florio sono indiscutibilmente fra le più grandi famiglie che la storia di Italia abbia mai avuto, e sono tutt’ora perplesso dal perché abbiano goduto di così poca biografia, a differenza degli Agnelli, dei Medici, dei Borgia, dei Farnese, degli Olivetti, dei Ferrero, di tutte quelle stirpi che, arrotolando alla confusa secoli e regioni, con le loro gesta hanno pitturato di operoso e zelante bello l’Italia.

Fortunatamente è uscito uno splendido libro, due per l’esattezza, I Leoni di Sicilia (Editrice Nord, 2019) e L’Inverno dei Leoni (Editrice Nord 2021), della scrittrice Stefania Auci, che rende a questa famiglia la giusta riconoscenza. I virgolettati di questo articolo sono pezzi che ho sottolineato durante la mia avida lettura.

I Florio erano dei “pezzenti” di Bagnara Calabra che, a fine Settecento, nel 1799 per l’esattezza, emaciati dalla miseria e dalla fame, a seguito di un terremoto che ne falcidiò la famiglia, tentarono la fortuna approdando, con la loro bagnaruola da pescatori, al porto di Palermo. Il capoluogo siciliano, ai tempi, era una delle grandi città europee, sotto il dominio dei Borboni. I Florio di lì a pochi anni avrebbero vissuto da protagonisti la storia: prima i Moti Siciliani e poi l’arrivo di Garibaldi, la nascita del Regno d’Italia fino all’età giolittiana e le due guerre.

A Palermo, appresso il porto, Paolo e Vincenzo aprirono una “putia”, una botteguccia, ingrandendo un magazzino che avevano acquistato tempo prima, che poi divenne una “aromateria”, dove si vendevano le spezie: un emporio di «profumi e memorie di terre lontane che in pochi hanno visto».

Etica del lavoro, culto del sacrificio, fiuto per gli affari, determinazione feroce, un pizzico di arrivismo dovuto alla fame, diversificazione delle attività, curiosità: le cose cominciarono a mettersi meglio e i Florio trovano una certa dignità economica. Col crescere della loro fortuna, però, divennero invisi, malvisti alla gelosa e conservatrice nobiltà siciliana: “Palermo lo trattava da estraneo. Lui aveva provato a farsi accettare, l’aveva corteggiata con la ricchezza, aveva dato lavoro, aveva portato benessere. Forse era questo che non gli perdonava: il lavoro. Il potere. Gli occhi aperti sul mondo quando invece Palermo i suoi occhi li teneva ben chiusi»

I campi di azione dei Florio? Dal commercio di spezie, zolfo e cortice – la corteccia di china buona contro la malaria -, ai trasporti marittimi (ai Florio si deve la nascita della Tirrenia!), al vino Marsala migliorato nella qualità e commercializzato soprattutto in Inghilterra (mai assaggiato il Marsala Florio o visitato le superbe cantine ipogee?), alle fonderie, a un banco di credito, alle relazioni commerciali e intellettuali con l’Inghilterra delle macchine a vapore, degli Ingham e dei Woodhouse, all’architettura attraverso la realizzazione di splendidi ville e palazzi in zone apparentemente inconcepibili per la mentalità dei tempi (per esempio Villa Florio accanto alla Tonnara di Scopello), alle auto (la Marca Florio è stata una delle gare automobilistiche più glamour nelle Madonie della Bella Epoque nel Novecento), alla politica, fino e soprattutto alla cattura e lavorazione del tonno.

Le tonnare sono secondo me la chiave di lettura della epopea dei Florio. Dei saliscendi della sorte, dei sudati pugni chiusi in segno di tensione e nervosismo, delle osservazioni prolungate e snervanti in attesa del pesce grosso, della sofferenza mangiata dalla salsedine, delle battaglie vinte ma anche perse. Della rappresentazione in un microcosmo anche sanguinario come la mattanza di una ascesa sociale costruita fra le fatiche, non senza compromissioni etiche e morali, con l’ingegno e la voglia di fare, la curiosità, e – infine – la guida solida e risoluta di un rais, del capo della tonnara, coi suoi canti sciamanici durante la pesca, di un pater-familias costretto a guardare sempre e solo avanti in nome di Casa Florio.

Ritorno in me giusto il tempo di approdare in quel paradiso in terra che è Favignana. Siamo quasi arrivati.

“La volevi davvero tanto, quest’isola”, mormora Giovanna a Ignazio, dopo l’acquisizione della famiglia Florio delle Egadi (Favignana, Formica, Marettimo e Levanzo) dalla famiglia genovese dei Pallavicini. Ed è un po’ la sensazione straniante che provo arrivando io. Mi piacciono gli ambienti dove uomo e natura sigillano una antropizzazione elegante, virtuosa, di mutuo supporto. La prima cosa che si vede dal mare è la Tonnara, coi suoi archi, una vera e propria cattedrale in tufo locale. Poi le ciminiere, perché a Favignana, in quel fazzoletto di terra in mezzo al mediterraneo, i Florio hanno inventato l’inscatolamento in lattine del tonno appena catturato e poi bollito e messo sott’olio, un sistema rivoluzionario ancora oggi adottato su scala globale. L’opera è dovuta all’architetto Damiani – Almeyda, che ha sempre “subito” i sogni dei Florio, convinti che il bello dovesse essere dove si lavora, accanto alla fatica, vicino alla produzione.

“L’industria domina la forza” – leggo questa frase nell’enorme portone di ingresso. La Tonnara è ancora attiva, una delle tre in Italia (insieme a Camogli e Carloforte), non più dei Florio e con finalità ormai solo didascaliche e informative. La visita dentro è un viaggio nel viaggio, fra fotografie del grande Salgado dell’agenzia Magnum, videointerviste a raccontare il passato attraverso le parole dei pescatori, le spiegazioni dettagliate delle varie aree dell’edificio, delle fasi della lavorazione, le reti e le ancore e tant’altro.

La fine del viaggio e il mio rientro al porto di Trapani, della deliziosa Trapani aggiungo, è anche la fine della famiglia Florio. Siamo ormai nel ‘900. Soffiano sinistri venti bellici, non i dolci zeffiri che ci avevano sedotto a Favignana. La famiglia Florio esperisce il “decadentismo”, fra abiti eleganti, maniere raffinate, amicizie altolocate, corse automobilistiche nelle splendide Madonie sopra Cefalù e attorno al borgo in pietra di Castelbuono, in cui la figura simbolo di questo chiaroscurale canto del cigno è l’iconica Donna Franca Florio, moglie di Ignazziddu e definita la “donna più bella d’Europa”.  Non male se si riguarda indietro di poco più di 100 anni, quando i Florio non avevano che un magazzino putrescente a Palermo ed erano stati costretti dall’indigenza più nera ad abbandonare la Calabria verso la Sicilia a bordo di una vecchia barca da pesca, con gli occhi aperti verso il mare e i pugni ben chiusi fino quasi a stritolare le ossa delle dita.