La nostra ex cucina a isola. Un piccolo cadeau per i nuovi proprietari. |
Ed eccoci qua. Senza più la nostra amatissima casetta di San Francesco. Bisarno non è ancora pronta ad accoglierci e in questa transizione vivremo dai miei genitori. Per le bambine un bellissimo gioco, per noi un necessario e tutto sommato piacevole interludio da homeless a camere e letti separati (io nel mio di quando ero ragazzino!).
Negli ultimi due mesi ho preparato questo trasloco come se fosse un esame all’università: con la voglia e la convinzione di farlo al massimo e di puntare alla lode, con circa 60 giorni di studio (in questo caso di organizzazione di scatole e scatoloni, buste e bustoni) matto e disperatissimo e con la mia classica lucida e funzionale freddezza che mi ha accompagnato fino al conseguimento dell’obiettivo. Approccio energizzato e adrenalinico che poi di solito “sconto” l’indomani, con una lunga fase di down che arriverà, temo, a Bisarno completato.
Il rogito è stato questa mattina alle 11. Ho abbandonato per l’ultima volta la casa alle 10.45, con un colpo violento al battente in ferro della porta che ha risuonato come ferito. Prima avevo fatto un giro da solo fra le stanze dove si sentiva l’eco. Come quando portavo gli amici a fare il giro turistico di tutte le stanze. Negli ultimi giorni abbiamo vissuto, io e la mia compagna, come se fossimo monadi autonome, pensando entrambi all’imminente e definitivo congedo dalla casa che ci ha visto crescere come coppia e diventare una famiglia. Come affrontare il distacco dal nido dove abbiamo trascorso dieci anni felici, felicissimi. Io ho scattato delle foto. Tante. Il display dell’iphone mi restituiva ogni volte immagini definite, geometriche, con la luce bianca del mattino a cristallizzare le belle forme e a caricarle di una nitorea tristezza. La sera prima avevamo svolto la nostra ultima cena nell’ampio open space, aggrappati a un tavolo in formica recuperato da Bisarno: pesto della mamma, birra da 66, taralli della Coop con scaglie di parmigiano prima e dopo la pasta e tante albicocche e noci per finire la frutta nella fruttiera. Le bambine erano, sono state, e sono allegre. Noi un po’ scossi. Dopo cena, stanchi di una giornata di continuo andirivieni e incalzanti riflessioni, mentre la Laura faceva addormentare le bambine nella loro camera priva delle armi classiche (librino, copertina, poltroncina) – bambine nei loro materassi a terra -, è venuto il Micio, amico storico, a darmi una mano con gli ultimi faticosi traslochi. E già era venuto la domenica mattina. Via il divano, via la struttura contenitiva della cantina. La radiolina sulla serie A – tristissima partita della Fiorentina in diretta dopo il malinconico addio al calcio di Totti di qualche ora prima, che aveva contribuito a sottolineare la giornata di addii e saluti -, luci soffuse dai bulbi delle lampadine e quel clima, strano, vero, partecipato, riflessivo, complice, che ti porta a parlare e affrontare mille argomenti, come se la casa ormai vuota, con poche ore da trascorrerci davanti, con il suo vuoto silenzio avesse aiutato a elevare il livello delle riflessioni e i contenuti delle parole. Al risveglio questa mattina la casa non mi appariva più così vuota come ieri sera: spuntavano residui, dimenticanze, stoviglie dimenticate che hanno costretto ad altri viaggi in macchina: verso casa mia, verso casa dei suoceri, verso il fienile, i tre contenitori di quanto ci siamo portati via da San Francesco, nel tentativo di portarci via con noi un po’ della sua anima. Ricordo ancora l’emozione che ho provato io – e ci ho pensato tanto dopo aver abbracciato con trasporto i nostri compratori davanti la banca un attimo prima del rogito, persone splendide a un passo da momenti cruciali anche per le loro vite e che sono sicuro ameranno la casa e sapranno valorizzarla e farsi coccolare quanto lo abbiamo fatto noi. Ho ben scolpito fra i ricordi più preziosi la prima volta che ci siamo andati, nella casetta di San Francesco, immediatamente dopo il rogito, un buio e piovoso novembre del 2007, quando era diventata finalmente nostra (durante i sopralluoghi – nel nostro caso anche rari e mai troppo ben accetti dai venditori di allora – ancora non la senti tua, non sei mai solo). Scendendo in cantina la Laura aveva battuto una testata clamorosa nell’arco di ingresso in mattoni, che avremmo rifatto perchè completamente mangiato dal tempo. Sempre della Laura ricordo l’espressione dubbiosa, appollaiata sopra le scale in pietra non ancora protette dal parapetto in montanti di corten e fili di acciaio, a osservare dall’alto gli operai a montare la cucina, vero cuore affettivo ed estetizzante della casa: vi erano dubbi sui pagamenti, sul futuro, sui debiti da affrontare, sul mio contratto ai tempi del Chianti Classico e del suo futuro da avvocato. Appassionato e punto da mille vaghezze, mi ero messo a studiare architettura, appassionato al design, incuriosito dai grandi marchi di mobili milanesi, ispirato dai musei del design, stregato dalle moderne architetture di NYC e San Francisco, e San Francesco é stata la casa dove ho affinato e cercato di riprodurre un mio gusto. Passano i primi anni. A luglio 2011 ero spaventato dalla nuova intrusa, la Matilde appena nata. Quel giorno, appena dimessi dall’ospedale, ci siamo fatti una pasta al pomodoro nella splendida cucina a isola, quasi ad affermare che niente sarebbe cambiato. Con Matilde la casa é diventata ancora più bella: una cameretta colorata, le sue risate, il colore verde e arancio che dominava. Poi Costanza. La Mignola, il suo pseudonimo, ha subito capito la mia paranoide cura e attenzione per ogni dettaglio disegnando sul divano, vomitando nel letto, martoriando le tende: grazie a lei la casa si é fatta più funzionale, meno museale, ancora più calda. Ricordi. Mi fanno tenerezza. Oggi ho quarantanni mentre San Francesco ha accompagnato tutto il mio decennio da trentenne. La speranza è di continuare il nostro percorso a Bisarno e anche Bisarno sappia restituirci il nostro affetto e le nostre premure come ha fatto il nostro nido di via del Molino, dal quale il 29 maggio 2017 siamo volati via.