Il seme della felicità.

Questa mattina, un lunedì di nebbia e vento sopra cui filtrava a fatica un pallido sole marzolino, mi sono trovato in auto con le bambine in singolar conversazione. Raffreddate, ma di umore gagliardo e piuttosto querule, le ho coinvolte, nel breve tragitto che ci separava dalla scuola, in una riflessione dialogata sulla felicità. Forse non dovrei parlare di certi argomenti con loro – sono ancora piccole – ma appena ho iniziato il mio ragionamento, ho trovato subito delle ascoltatrici attente, partecipi e molto lucide.

La felicità. In questa fase della mia vita non ne ho troppa, purtroppo. Mi ha da sempre attratto l’aforisma, attribuito a Madre Teresa ma in realtà ripreso con parole lievemente diverse da più pensatori, secondo il quale “la felicità non é una destinazione ma un modo di viaggiare”. Qualche anno fa affrontai la questione con Edoardo, l’amico che non c’é più, scrivendogli questa frase a chiusura di una lettera che gli avevo dedicato nel giorno dell’anniversario della prematurissima scomparsa della sua compagna.

Oggi con le bambine non ho parlato di morte, ma ho soltanto indagato su cosa rappresenti per le mie piccole, ma già grandi Upupole, essere felici, cercando io per primo di darmi degli insegnamenti, di auto-aiutarmi. Ci siamo fermati nel ragionamento attorno a una metafora, a un esempio concreto, premettendo loro che io per primo non riesco ancora troppo bene a incarnare quello che vo’ predicando. 

Ci siamo detti che la felicità, quella più duratura, non é una giornata al mare d’estate, o un bel voto a scuola, non un qualcosa che accade quasi per caso, ma in realtà é un sentimento, uno stato d’animo, un approccio comportamentale, una crescita, un “modo di viaggiare”, tornando alla poesia di Madre Teresa, da conquistare passo dopo passo.

Abbiamo fatto un paragone coi nostri semini di peperoncino. Al ciclo naturale che le bambine dallo scorso anno hanno imparato a conoscere, seguendolo con passione e dedizione. Ecco, ho detto loro: la felicità la senti nascere come un semino che prima germoglia e poi cresce, grazie solo alle cure che ogni giorno gli abbiamo riservato. “Addomesticandolo” come abbiamo letto nel piccolo principe, cercando di essere presenti e costanti per il semino, attraverso tante continue cure e premure: il travaso in un vaso più grande o nell’orto, l’annaffiare con regolarità, fertilizzare, proteggere dai funghi e dagli insetti le delicate gemme – perché la pianta si può ammalare, e guarire. Prendendocene cura insomma. Impegnandoci per far si che qualcosa – una nascita sana e vigorosa – succeda.

Poi le cose accadano anche da sè, una volta instradate col nostro amore: arriva la primavera, la luce e il calore, e gioiamo meravigliati della bellezza dei fiori. Quello che non sembrava possibile, è. E possiamo anche lasciarci andare a gesti frivoli e lievi, come annusare le fioriture, farci nutrire dal bello della natura. Fiori rosa, bianchi, rossi, dove prima c’era solo un piccolo seme apparentemente insulso.

“Poi vengono i frutti e l’estate!”, mi incalza Matilde. Eh si, la pianta diventa adulta, addomesticata e rigogliosa, e ci ricompensa con i suoi frutti. É questo il momento quando la felicità si fa sentire più forte, anche nelle sue contraddizioni e nelle sue spigolature. Perché ne siamo stati noi i creatori, gli artefici, i piloti, perché ci siamo imposti, anche sforzandoci e controvoglia, un “modo di viaggiare” positivo e costruttivo, anche quando eravamo un po’ tristi per quello che ci stava accadendo. Quando sentivamo freddo e molta paura del domani. Piantando i semini.

“Si, ma i peperoncini a me non piacciono babbo, sono troppo pizzicanti”, squittisce Costanza. Vero, la felicità non é mai perfetta, e talvolta la si prova anche guardando la vita da un punto di vista meno severo, più indulgente, ingannandoci un po’. Perchè poter mangiare il frutto delle proprie cure, assaporarne fisicamente la consistenza, anche se il frutto è un po’ ammaccato, amarognolo, oppure piccante, ricordando che prima avevamo solo un semino e tanta incertezza, ci dice che il nostro “modo di viaggiare” ci ha portato, metro dopo metro, comunque un po’ più in là. A nuova vita. A nuove percezioni fisiche e psicologiche.

E per l’autunno che verrà – le foglie rosse e fragili splendide prima di cadere – per l’inverno dove tutto sarà fermo, algido e apparentemente senza vita, in cui ci metteremo addosso dei cappotti pesanti per proteggerci dal freddo – ci potremmo sempre ricordare che ogni frutto contiene tanti semini. E che, sotto sotto, la vita continua a pulsare. Sempre. E che la felicità ce la dobbiamo conquistare, perché è bellissimo sentirsi rinascere dopo aver lottato e subìto la caduta. Anche se il vento potrà piegarci, le malattie stancarci, le stagioni costringerci a continui cambiamenti di cui avremmo fatto volentieri a meno, dentro di noi avremo abituato a far pulsare sempre il seme della rinascita.

“Babbo – che noia…Comunque all’asilo faccio un disegno dedicato a te”, taglia corto Costanza. Matilde l’avevo già lasciata davanti alla scuola elementare, che correva in classe scortata sulle strisce dal vigile urbano, da sola, come vuole lei. Entrambe vivaci, impertinenti e fiorite. Come dei semini germogliati e piene di vita e coraggio, dei quali ho, abbiamo avuto gran cura e dedizione. Ecco, la felicità. Appunto. Un “modo di viaggiare”.