Eccomi qua. Pechino. Quasi le due di notte. Ripiego con attenzione le giacche e cerco di farle entrare tutte, di nuovo, nel bagaglio a mano. Succede così, a ogni ritorno è come se gli abiti avessero acquisito il peso, e il volume, della trascorsa esperienza di viaggio. E delle persone, colleghi diventati amici, collaboratori con cui sono entrato in confidenza, che hanno intrecciato con me per qualche ora il loro tragitto esistenziale in questa remota, accogliente parte di mondo.
Sono di ritorno da questi giorni in Asia. Sembra una vita, ma sono passati solo otto giorni. Dall’arrivo a Bangkok, caotica, gustosa di Padthai e latte di cocco, infinita di notte e di giorno; ai giorni di Hong Kong, una città di dim sum (ma quanto è buono?) spaventata, desolata, in conflitto per uscire da quella via di mezzo fra la Cina e l’occidente in cui si è trovata; fino alla Cina più nord, Pechino innevata, fredda, inquinata, disordinata, la Pechino dell’hot pot e dell’anatra alla pechinese, con quel fascino rigoroso e grigio di un presente in corsa che ancora guarda al suo passato imperiale, con gli enormi palazzi della Città Proibita e l’infinità ampiezza di Tienamnen, simbolo di una rivolta giovanile che voleva scrollarsi di dosso i rigori del comunismo…
Era il mio primo viaggio lungo dopo un anno circa, in cui avevo confinato le mie esperienze di lavoro all’Europa. L’Asia mi farà bene, mi dicevo. Un paese capace di coccolare, di includere, di accogliere. Ho seguito il gruppo di James Suckling, che col suo marchio “The Great Wines of Italy” ha unito cantine vinicole di tutta Italia in questa tournee. Ho avuto modo di conoscere tante persone che vivono il lavoro che fanno come quello che è: una fortuna. Il poter incontrare altri, confrontarsi, assaggiare, in nome di un principio di civiltà senza confini, il vino Ruffino, e direi il vino in generale.
E per la prima volta mi sono aggregato a un gruppo di ragazzi ben più giovane di me che mi ha fatto sentire vecchio, affannato dietro i loro ritmi che ho perso (se mai ho avuto) ma anche felice di aver costruito qualcosa, di sapermi muovere, di fiutare il posto giusto, di vivere con qualità il lavoro, di farlo al massimo, di farlo al meglio. E ogni volta che provo delle emozioni il viaggio ha avuto un senso. Per me e credo proprio anche per Ruffino, con la quale mi identifico profondamente ogni volta che parlo, che racconto quello che siamo a giornalisti, a clienti, ad appassionati che hanno una idea sognante e colorata dell’Italia. Come stasera, in uno sperduto angolo della mostruosamente grande Beijing, dove ci siamo deliziati, allegri, in un ristorante della ragione cinese dello Yun Nan, nel sud ovest.
La tavola, la buona tavola, porta cultura, reca voglia di stare insieme. Aiuta a tessere ponti, relazioni, includere. Adesso si torna a casa, perché come dice Cesare Pavese, “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Me lo ricordo sempre a memoria questo passaggio de “La luna e i falo”. E io domani torno al mio di paese, alla mia famiglia, alle mie bambine. A tenere stretta e a non mollare questa voglia di fare, di costruire su questo entusiasmo, di lasciare un piccolo segno di me nel grande mondo, viaggiando, raccontando, spartendo un sorriso o un calice di vino, scrivendo le mie storie su questo diario digitale.
“By This River”, suona adesso l’IPhone. Sembra quasi capire il senso della mia scrittura e la accompagna con la canzone più appropriata. By my river, dove domani tornerò.