Tutto é cominciato una volta, fra le pagine mangiucchiate di una vecchia edizione de “Le mille e una notte”. Poi é proseguito con uno strano piatto che deliziava le mie vacanze siciliane da ragazzino: il cous cous di pesce a San Vito Lo Capo. C’é stato un periodo, ancora non del tutto concluso, in cui viaggiavo. Non erano vacanze, malgrado ne avessero i connotati di limitatezza, ma esperienze vissute con occhi sgranati ed estasiati verso mondi lontani e diversi che in parte avevo studiato a scuola, all’università e in parte riecheggiavano nelle parole musicate di uno dei miei maestri, Franco Battiato. La prima volta con la civiltà araba fu in Europa. Un viaggio in Andalusia mi sedusse per i colori delle architetture moresche. L’Alambra, la Mezqita, l’Alcazar: mi piaceva l’idea di danze di luce costruite fra i colori e i riflessi per venerare il proprio dio. Anno dopo anno ho visitato la Turchia, la Siria, il Libano e la Giordania. Brevi privilegiate tappe da cosmonauta occasionale, con soldi e Imodium in tasca e succo di tamarindo a dissetarmi. A Maulula, piccola enclave cristiana abbarbicata sopra la Damasco di Assad e del meraviglioso porticato della Grande Moschea, ho avuto il privilegio di sentire parlare in aramaico. Con l’arrivo rosa del tramonto, ad Aleppo, la città più antica del mondo, la fine del Ramadan era festeggiata da sciami di persone fra il festoso e il nevrotico che si inebriavano di succo d’uva e i ristoranti all’aperto – fra candele a terra, luci soffuse, arredi in cedro intarsiato e profumi di tabacco e albicocche – davano vita a spettacolari banchetti di frutta, pesce, carne e verdura. Aleppo: la sua cittadella e il suo suk di spezie. Un anziano signore ci inseguì per darci il resto di quanto avanzavamo dopo esserci riempiti di curcuma, zafferano, datteri, pistacchi e pepe nero. Una miseria avanzavamo e avevamo inteso lasciarla a quel signore che non voleva invece niente in più del dovuto. La sera mi deliziavo di kebap d’agnello con le amarene, il piatto tipico: una squisitezza. Le acque del vicino Eufrate sono balneabili e i pesci appena pescati (non da noi ma da abili pescatori con le reti) gustosi da attrarre – l’odore della grigliata – vespe ipertrofiche che per cacciarle via ci siamo ingegnati tecniche primitive quanto efficaci: a cartonate, scagliate via come pirulini. E poi Palmira, la regina del deserto, fra il nulla e le palme, antica città romana che si fa arancio al tramonto. Nella Bekaa Valley i vigneti alternavano piantine di cannabis e i carrarmati, per noi che discendevamo dalla Siria verso quel fazzoletto di bosco e contraddizioni strozzato sul mare e grondante vitalità che é il Libano, ci seguivano col loro naso da pinocchio sempre mirato contro. A Balbeek, dove millenni fa si cercava l’estasi con orge lussuriose, una carezza alla dea della fertilità di lì a pochi mesi avrebbe reso tutte le ragazze della compagnia in lieta attesa. Ci eravamo sentiti chic e un po’ seventies fra la corniche di Beirut e il lungomare di Byblos prima di discendere verso la Giordania attraverso la spettacolare strada dei re, fra i capolavori musivi di Madiba fino al deserto rosso fuoco del Wadi Rum e Petra. Petra: semplicemente la cosa più bella mai vista. Ci siamo persino risvegliati il giorno dopo alle 4 e mezzo del mattino, per rivederla da soli, all’alba. Non si può spiegare Petra. Stanchi di tante emozioni il giorno successivo ci eravamo coccolati nel Mar Morto, galleggiando nelle acque salatissime e leggere, anneriti dai fanghi termali delle sue sponde. Fra la Siria e la Turchia abbiamo visitato le città morte della Mesopotamia, insediamenti evoluti afferenti alla polis di Antiochia. Dovevamo stare attenti ai cani randagi e al caldo impetuoso. Poi la Turchia. La regione dei laghi dove abbiamo conosciuto un popolo nomade sceso a valle per barattare i suoi formaggi per un po’ di frutta e verdura. La Cappadocia coi suoi “camini” color cipria e l’uva passa. L’ascesa alla montagna di cotone, Pamukkale, sormontata da una città romana perfettamente preservata. Ogni giorno ci nutrivamo di una pita, quella che noi chiamiamo pizza: a forma di ogiva, la mia preferita era col ragù di agnello e i peperoni verdi tagliati a cubetti. Poi Istanbul, Costantinopoli, Bisanzio, una e trina, tre imperi, tre religioni, lo yogurt di Galatasaray, Europa e Asia e un caffè al Pierre Loti a godersi l’infinitezza della città. Nei bagni turchi ho imparato a rilassarmi e a godermi il caldo umido, il muscolo che si scioglie, la conversazione lenta. Una sera ci siamo protratti troppo e usciti avevamo la febbre. I canti dei muezzim al mattino ci svegliavano sempre, ipnotizzati da quel canto litanico proveniente dai minareti della città. Attraversavo venendo da Sultanhammet a piedi il ponte di Galata con il panino di pesce in mano verso Taksim dove tentavo, con mosse sgangherate e scimmiottando gli ipnotismi dei dervisci turner di Konia, con mosse tersicoree, fortune precarie con ragazze dal colore olivastro e occhi di gatto in discoteche immense che si riflettevano sul Bosforo. Viaggio, e forse in fondo ora ancora più di prima: con la testa, coi ricordi e guardando queste fotografie. Quel mondo esotico e ammaliante che avevo vagheggiato da bambino, intuito in un cous cous a quattordici anni e, seppur in confinata misera parte, esperito fino alle soglie della paternità, oggi é lontano. Ci appare nemico – l’Isis, i talebani, gli stati canaglia, gli attentatori – e forse lo é davvero anche se faccio fatica a crederlo: del resto a un amore antico e perduto il ricordo perdona anche i dolori inflitti. Penso a Sherazade e alle sue storie. Sfoglio con nostalgia la mia “Le mille e una notte” salvata dalla casa dei nonni e ingiallita come carta da fritto mentre la televisione scorre le immagini di Nizza e la presa turca da parte dei militari. Apro una bottiglia di vino, penso che la mia passione per il vino mi abbia permesso di godere anche degli odori di quelle terre: bevo Syrah, Siria, le spezie, é vellutato, una via della seta che lentamente mi accompagna sinuosa alla fine di questa sera.
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Non lontano dall’Iraq, un bel bar.. |
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Bambine ad Aleppo. |