Mi trovo spesso a parlare di bellezza, a cercarne le sue sfuggevoli carezze in ogni ambito della mia vita. Molte volte, come questa peraltro, ne scrivo: che sia un post privato di un blog, o una riflessione personale in famiglia, o uno spunto lavorativo, finanche in tematiche alte, universitarie, o di business, il tema della bellezza ricorre quasi fastidiosamente nel mio abbecedario espressivo.
Che la bellezza salverà il mondo è uno dei pochi assunti – del più grande scrittore di sempre, il buon Fedor – a cui io mi aggrappo da sempre. Ma il termine può depistare, può appare che io intenda la bellezza come un atto di puro estetismo, di corpi statuari e di armoniche forme policletee. No, sarebbe una visione un po’ frivola e superficiale, legittima e che peraltro non disdegno, da bruttino qual sono, e a cui sono tutt’altro che insensibile, ma non è questa la bellezza che salverà il mondo.
La bellezza è una entità fragile. Si annida nei dettagli e vive assiepata fra le piccole cose. Ha contenuti aggraziati e profumi sottilissimi. Ed è la luce che permette alle persone che si cercano di trovarsi. Io ricordo quando mia nonna apparecchiava la tavola per il mio rientro da scuola con zelo certosino, con gesti rituali, con manovre ipnotiche, e al mio esatto arrivo la padella smetteva di sfrigolare e la pasta veniva condita in una insalatiera lisa, gonfia di sugo colorato e amorevole abbondanza. “Non lo finisci? Non è buono”?. Una consuetudine gustosa e carezzevole che mi ha educato e cresciuto: una bellezza invincibile, protettiva, rassicurante che ancora oggi, a oltre 20 anni dalla sua dipartita, si è sublimata in un etereo velo che mi avvolge e mi aiuta a cacciare via tanti pensieri neri.
Lo scorso 9 luglio ho avuto una giornata davvero emozionante. Forse una delle più soddisfacenti da quando lavoro. In entrambe le situazioni ho portato la bellezza, la poesia, i miei principi filosofici al centro di un dibattito, con molte persone che hanno colto le mie parole, parole tremebonde come ogni volta che mi metto a nudo nei miei pensieri più personali, e mi hanno fermato e scritto.
Al mattino ero nell’aula magna dell’Università di Verona, al centro di una cattedra di spiriti eletti, grandi scienziati, manager di successo e titolari di aziende storiche, chiamato dal prestigioso AWBR (Academy of Wine Business Research), io “sesto di cotanto senno”, con l’unico messaggio che il vino possa davvero aiutare le persone, in quanto poetico depositario di una bellezza fragile su cui l’umanità ha modellato il convivio, il simposio, il piacere dello stare insieme, fin dai tempi della Colchide, della Mesopotamia, degli Etruschi. Alla fine, l’uomo ha sempre cercato la felicità nello stare insieme. E il vino ha sempre saputo porsi al centro di questi momenti aggraziati. E che si possa anche costruire su questo approccio dei programmi di educazione al bere responsabile: bere un po’, mai troppo, come ci appartiene da sempre, senza mai negare le evidenze scientifiche che il vino, già in minimo eccesso, possa far male. Per me è stato molto gratificante portare questa visione culturale, di ottimismo sociale, di autodeterminazione dell’uomo, di positiva consapevolezza, in un dibattito prettamente scientifico sul vino, sulle tante nuvole nere che incombono sopra il settore. Vi erano a sentirmi professori universitari da tutto il mondo, che mi hanno chiesto poi di raccontare questa mia visionenei loro atenei a Oxford, ad Atene, ad Adelaide, su cui poi innestare i loro studi sulla sostenibilità, sull’innovazione, sul genoma, sui modelli di business, sui consumatori. Sulle cose serie.
Viaggio di rientro da Verona in auto elettrica, sotto un cocente sole. Una sosta per ricaricare l’auto e un po’ di energie anche a me – in piedi fin dal mattino e svuotato dalle due ore di intervento in inglese – attraverso i supersnack dell’autogrill, doccia caldissima a casa ed eccomi a Poggio Casciano, la tenuta di Ruffino, per una altra caccia alla bellezza, come la abbiamo definita scherzosamente durante la serata con l’autrice del libro, Francesca Polizzi, che io ho avuto l’onore di presentare. Un libro incentrato su storie di artigiani fiorentini che hanno saputo scolpire bellezza, attraverso le loro creazioni, che siano tessuti, biscotti, vassoi o semplicemente vini, come quelli di Ilario e Leopoldo Ruffino che nel 1877 ebbero la sognante visione di portare, attraverso fiaschi di vino rosso, la bellezza del vivere semplice toscano e di farne una elegia di gustosa bellezza, di accurato racconto di un territorio spettacolare, di guerre e infiniti rinascimenti come il Chianti (da clangor, sembra ancora di sentirne lo sferraglio belligerante delle armi, nel suono cupo del termine), oggi più che mai da proteggere, da avere a cura, perchè la bellezza è cosa fragile, e quanto mai preziosa.