Domenica sera. Si sta chiudendo un’altra settimana. Fuori pioviggina, dal grigio al buio è stato un attimo, e spira un forte vento, come ieri. Le bambine stanno guardando la TV, con la Mati a soffiarsi il naso per il sesto raffreddore stagionale. La Laura legge sul letto, bella col suo taglio da marine. E io qui accanto aggiorno il blog, mentre sorseggio un po’ di acqua con citrosodina.
La citrosodina. La prendevo di nascosto a casa dei miei nonni paterni. La mia nonna Fedora la chiamava “i chicchini”. “Li vuoi un po’ di chicchini, nanni?” – mi chiedeva con la sua aria stralunata, da matta di casa. E senza attendere risposta ne metteva un po’ per me, di citrosodina, in uno scottex, mentre il nonno Gino mi forniva sorridente mille lire e Stadio, il giornale sportivo che comprava tutte le mattine. Fine anni Ottanta, o giù di lì.
Da qualche mese, dopo decenni di dimenticanza, la citrosodina, nel barattolo di sempre, é riapparsa in casa, dietro suggerimento del mio medico, come farmaco per provare a guarire i miei violenti crampi alle dita dei piedi, un mio problema storico che negli ultimi mesi si é accentuato. Oggi la bevo per digerire, per evitare i crampi, ma anche – come se fosse la mia madeleine di una Pontassieve che fu – per rifugiarmi nel mio ovattato passato fanciullesco e provare a scacciare le malinconie, le paure e le angosce che mi stringono forte l’anima.
Per ritrovarmi un po’. Con la citrosodina e la sua citrica effervescenza, ma anche con l’amore della mia famiglia, i semini che germineranno e l’orto che verrà, la primavera con le sue profumate fioriture, le bambine e il loro brio, dei nuovi stimoli professionali, la mia scrittura che sempre mi affianca, Bisarno che si fa sempre più bella e io che mi impegno perché ciò accada (anche quest’ora week end ho spostato sassi, razzolato il campo, bruciato le potature, consolidato il nuovo muro…) e, non ultima, la forza del mio carattere che ha sempre avuto sogni vertiginosi e ha sempre provato a realizzarli.