Questa sera il tramonto è stato spettacolare. La prima sferzata invernale di aria fredda ha schiarito ancora di più il cielo e trasformato il saluto del sole in un arancio caldo e cupo che, scivolando dietro il colle della Pievecchia, è virato al viola. Un baffo di luna ha contribuito a rendere ancora più struggente questo scenario. E Bisarno si stagliava maestoso contro quest’anfiteatro di colori. Natura e architettura.
Ho percepito il bello, quello che vive oltre noi e che ci sarà dopo di noi: l’uomo che crea e lascia al domani, a nuovi Francesco, ai soliti litigi, a nuove vite, un incanto incastonato di pietre e mattoni e il sole che ogni giorno rincorre vanamente la luna, da millenni.
Questi momenti mi creano una certa malinconia. Come se avvertissi la mia piccolezza e le mie inutili fatiche quotidiane. Quando tutto fuori di te è perfetto e funziona e va, e in te invece senti che l’ingranaggio non ha lo stesso ritmo, che qualcosa cigola e si inceppa. E più forti si fanno le mie ipocondrie, le incertezze, la paura di perdere, di perdere gli affetti, le conquiste, il senso di serenità faticosamente acquisito.
Quello che adesso osservo – e che mi incanta – la natura, l’arte, la bellezza, non ci appartengono. Eppure mi affanno in ogni modo per cercarli. Forse nel non smettere mai comunque questa ricerca – e nel riuscire a godere di questa amara constatazione, nell’assaporare il gusto nobile ed esclusivo dell’amarezza – sta davvero il segreto.
Io intanto sparecchio la tavola. Mi godo la luna e la nuova illuminazione di Bisarno, le gatte che sono contente del cibo che ogni sera dispenso loro, e raggiungo le Upupole sul divano: me le stringo forte avvolti tutti nella coperta di lana appena riesumata dall’inverno scorso e necessaria, essenziale in questa prima sera di bello, malinconico, algido freddo.