La potatura, la scienza, o l’arte, di tagliare rami per indirizzare e tutelare la crescita di una pianta, mi ha sempre affascinato, da umanista con scarsissima manualità. Eppure, quasi per ritrosia o paura di far danni, è uno degli aspetti che nel mio progressivo innamoramento della vita di campagna, dei mie progressi da ortista, ho erroneamente sempre posticipato nell’affrontare e ho più volte trascurato e, nel migliore dei casi, affidato ad aiuti altrui.
Un paradosso, perché poi racconto spesso a pappagallo, quando per lavoro mi trovo a esporre il ciclo della vite, l’importanza della potatura, che peraltro si svolge in queste ore, per la futura salute della pianta e la qualità del vino.
E invece l’altro giorno ho preso la situazione di petto e ho affiancato un signore ben più anziano, che pota da decenni nelle fattorie della zona, nella potatura degli alberi da frutto di Bisarno, oltre alle more e alle rose canine.
Il potatore è generalmente un tipo molto silenzioso. Inizialmente pensavo per una certa ritrosia ma in realtà è perché si deve entrare in magica sintonia con la pianta, ci si deve concentrare per intravedere quello di cui la pianta ha bisogno e quello che tu vuoi portare, introdurre, da un punto di vista della crescita e dello sviluppo. Senza però mai tradire troppo l’istinto della stessa, la specie, se non per piccoli passi, anno dopo anno. Ecco, il prendersi cura è un altro aspetto molto affascinante della potatura. Non lo si può fare una volta e poi dimenticarsene per mesi e anni. E prima di potare, bisogna pensare, riflettere, immaginare. Far lavorare sia il cuore che la testa. E ancora, la potatura è una ferita inferta alla pianta: infatti la si fa d’inverno, quando la pianta dorme e non scorre linfa o ne scorre pochissima nelle sue vene. E con l’olivo bisogna stare anche più attenti, da sempreverde “spinge sempre”, c’è sempre un po’ di linfa, quindi le potature solo a fine inverno, meglio ancora a inizio primavera, quando siamo sicuri che non ci saranno gelate violente. Quindi: ci si mette davanti a un albero e lo si osserva: i rami che si intrecciano sono da tagliare. Se ha troppo slancio che “pare un cipresso”, c’è da cimare, cioè tagliare la parte apicale, altrimenti sarà impossibile poi raccogliere i frutti. Che abbia una forma armonica, che sia “bellino” insomma! Che magari non sbilanci troppo verso la luce, “c’hanno sempre fame di luce gli alberi”. Una volta sentite e analizzate le esigenze della pianta, si può cominciare l’arte del taglio, con una maestria che mi ricorda Edward Mani di Forbice! Eh si, il rapporto mano – forbice è morboso, geloso, indissolubile. Alla fine della potatura, la pianta può apparire un po’ mutilata, fin troppo spogliata, ma anche qui serve pazienza, i risultati di una buona potatura si vedranno solo quando il sistema linfatico si riattiverà e la pianta comincerà a “ributtare”, a “mettere”. E allora vedremo se i nuovi rami cresceranno dove si è voluto, se i fiori e poi i frutti alligneranno laddove si è ipotizzato nel freddo inverno e se quella bellissima, intensa e rilassante sensazione che ho provato, concentrato sul momento, sarà ricompensata dalla bellezza della pianta in fiore con l’arrivo della primavera. Perchè il più grande insegnamento che mi dà la potatura, la pianta, è che le cose belle bisogna prepararle, instradarle, non attenderle e sperare.