Oggi tutte le foglie stanno cadendo. Molti alberi sono già spogli. A terra è tutto un accartoccìo. Il cielo è grigio e il vento è sinistro. Nothin’ lasts forever. And it’s hard to hold a candle in the cold November rain, cantano i Guns’n’roses.
Mi è tornata la paura. Paura che qualcosa possa di nuovo spezzarsi. Mi è bastato una osservazione di una presunta anomalia che mi sono sentito come il nocio davanti casa: in vano tentativo di trattenere le sue foglie dalle spire ventose che, alla fine, hanno sempre la meglio. Nothing lasts forever.
Dicono di stare sul presente. Sui qui e ora. Non è mai così facile. O per lo meno, lo è fintanto che le cose tutto sommato vanno bene, ma quando sai cosa hai vissuto, cosa hai passato, cosa rischi, l’esercizio della consapevolezza è particolarmente scivoloso.
Alla paura si affianca la mancanza. Sono ormai un uomo di quasi 45 anni. E ho subito delle perdite. Una volta da bambino erano stati i nonni a venire meno. E lo ricordo come il primo schiaffo potente verso la normalità. Poi siamo cresciuti. E sono arrivati altri lutti. Anche persone giovani. E le malattie. E la vita poi paradossalmente si è fatta più dura ma anche più bella, non sprecata. Le mancanze però lacerano, appena si mette un po’ la testa su certi ricordi, o una canzone, una immagine, li evocano. Io sto provando a far mie certe note caratteriali, a vivere io certe cose che sarebbero piaciute a chi non c’è più, e ne sarebbe orgoglioso. Penso di avere abbastanza nel mio modo di essere ora di mio babbo, in questi tre anni dalla sua morte.
Sto guardando un video di Italia 90. Sulle note di Notti Magiche. Avevo 13 anni. Sono passati più di trent’anni. Oggi faccio vedere quel video alle mie bambine e non capiscono perchè mi commuova a vedere Gullit, Schillaci, Mattheus, Maradona, Caniggia, Robi Baggio appena passato alla Juve. C’era mio babbo, i miei nonni, la mia vita davanti. Non piango per quelle immagini. Piango per quello di rassicurante che avevo. Quel nido affettuoso che mi era stato costruito attorno e nel quale io potevo sperimentare spavaldo.
Oggi devo giocare un ruolo diverso in una partita più complessa. Sono io uno di quei pilastri che i miei genitori avevano edificato attorno a me. In quel magico noi tre che sento ancora così presente. Nel cucinotto di casa di via della Repubblica 35-40 anni fa. I pranzi del sabato accartocciati in quei pochi metri quadri con pollo arrosto preso al mercato e ad ascoltare alla radio le classifiche delle hit, loro che parteggiavano per Ramazzotti e io per Luis Miguel di Ragazzi di oggi….
E non posso permettermi agli occhi della mia famiglia di oggi la paura e la mancanza. Sono io quel centro. Ne sento la responsabilità. E il tempo passa. Corre. Un attimo e anche loro saranno grandi. E noi ancora più grandi. Ai loro occhi vecchi. Ai nostri ancora in cerca di equilibrio. Delle volte mi chiedo come mai nessuno, nessuno riesca a capire, io per primo, che la vita tanto passa per tutti, ed è inutile spaventarsi per quello che potrà accadere, per i risultati di un esame medico, per una malattia, per il lavoro.
Stare sul presente. Volere e volersi bene. Non ferirsi con le parole. Dare il massimo in ogni cosa si è chiamati a fare. Non perdersi in pensieri brutti. Lasciare qualcosa a chi ci sarà dopo: anche oggi ho piantato un caco. Ho riempito la casa di alberi. Cercare il bello, perchè il bello nutre. Protegge. Mantenere l’equilibrio su questa corda tesa. Esorcizzare la paura e la mancanza. Che ho io e che penso abbiano tutti.
E che forse ci aiutano a darci spinta a vivere al meglio.