É una domenica assonnata, con la foschia umida di queste giornate calde che impedisce al sole di filtrare, se non per biancastri e fastidiosi dardi di luce. Arancino combatte la sua perpetua battaglia contro, credo, un insetto, nella ostinata e istintiva volontà di uccidere qualsiasi cosa per poi mostrarmelo. Gli irrigatori nel prato danzano sotto le note vintage di “Non succederà più” di Celentano e la Mori. Le bambine dormono ancora mentre la Laura é fuori per alcune commesse.
Ieri abbiamo dato l’estrema saluto a una persona di 37 anni. Una giovane mamma che ha lasciato due bambini e suo marito. Loro due sono stati per noi un punto di riferimento in questa battaglia per la Laura. E continueranno a esserlo. Faccio fatica persino a indugiare con la scrittura su questa situazione perché fa davvero male.
E sono sempre più della ferma convinzione che la felicità sia un esercizio e non la somma perfetta di tante congiunture che mai, nella vita di ognuno di noi, saranno presenti tutte insieme. Al contrario, anche con fatica, anche se la tensione va verso l’auto commiserazione, verso il problema più o meno grave che ci affligge, verso una certa compiacenza sul dolore, é un obbligo, nei confronti di storie come quelle di Daniela (o del mio babbo, o di Edoardo ed Eva), di imporci una attitudine propositiva ed entusiasta alla vita. Cercare e godere di una nuova fioritura dopo l’inverno, passare quanto più tempo con le bambine, uscire dal circolo vizioso dell’io al centro di ogni pensiero e azione, perché l’egoismo conduce sempre all’insoddisfazione.
La felicità é il modo in cui si cammina. Non l’arrivo del cammino. La felicità é il viaggio. Che non sappiamo quanto sarà lungo, accidentato, con buche profonde ma anche paesaggi incontaminati, ricco di persone dalle quali ricaveremo amore e dolore.
É cominciato a piovere. Si sta bagnando anche l’ipad su cui sto scrivendo questo post. La malinconia é diabolica. Ha un sacco di mezzi per palesarsi. Come quel tarlo nella testa che mi farebbe propendere verso l’abbandono, la disperazione, il ricordo lacerante, la paura dell’incertezza, la fragilità e la precarietà che sento far parte di ognuno di noi.
Va ucciso quel tarlo. Con la stessa determinata fermezza con cui Arancino ha ormai ammazzato quell’insetto.
Rientro in casa. Vado a svegliare le bambine. Sono proprio contento di trovarle addormentate così potrò coccolarmele nel loro risveglio di questa domenica mattina e accompagnarle in una giornata piovigginosa.