Nei miei primi viaggi di lavoro, circa 15 anni fa, non riuscivo quasi mai a uscire da me stesso. Mi rannicchiavo dentro valigie ingombrantissime che mi facevano urtare dappertutto, l’ansia di perdere l’aereo mi portava in aeroporto ben prima delle consigliate due ore dalla partenza, con me una infinità di farmaci e medicine, e vestiti ben più spessi del necessario, come se a tenermi caldo dovesse essere ciò che indossavo, e non ciò che avrei provato, vissuto, esperito.
In volo verso l’Asia. Dopo tre anni esatti.
Non avevo neanche trent’anni e combattevo contro paure, ipocondrie e malinconie, in ordine sparso. Il bello, o il brutto, è che poi si sono verificate praticamente tutte le cose di cui temevo. Sulle quali rimuginavo. Di cui mi terrorizzavo al solo pensiero: morte, cancro, sangue. La vita è strana. La pensi e la progetti. E questo un po’ tranquillizza. Ma poi, col filtro a ritroso del tempo, ci si rende conto che gran parte della programmazione è sterile e il percorso è imprevedibile.
Sono accaduti, questi temuti accidenti, malgrado i miei tentativi di razionalizzare, di controllare, di prevedere. E in questi anni di ruminanti, talvolta estenuanti riflessioni tutte portate dentro di me con fatica, e di imprevedibili situazioni, sono accadute anche cose belle. Molto belle. Forse ancora più belle grazie a queste brutte. Sono diventato babbo e poi orfano di babbo. Marito dopo aver quasi perso la compagna. Più fatalista. Più cinico. Più umoristico. E non ho smesso un attimo, dal momento in cui questa strana guerra fra le parti ha cominciato a caratterizzarmi (“amici, a un tempo stesso amore e morte ingenerò la sorte”, scrive Leopardi), di cercare di reagire, di trasformare il tutto in una opportunità. Di vivere di sentimenti e di idee, con una ossessione sana (almeno questa) di lasciare una presenza, una traccia di me. Di sentire i bei momenti con maggiore intensità anche grazie ad altri orribili vissuti. Di stare nel presente e di cercare la bellezza, la bellezza che comunque c’è e riesce sempre a carezzarmi, a nutrirmi. Sono diventato anche un apprezzato lavoratore, che è riuscito a fare delle proprie passioni un lavoro: l’umanità, le storie, la parola, la bellezza, il gusto, il design. Il viaggio, appunto e soprattutto. Quello per cui servono “occhi ogni volta nuovi” e “un paese a cui rientrare”, mischiando Proust e Pavese. E oggi, ormai adulto maturo, riprendo a viaggiare a lunga tratta dopo tre anni nei quali ci siamo tutti fermati per il covid. Prima lentamente in Europa. Poi ora anche Asia. A 10 anni esatti – sto riguardando le foto sull’iphone, pazientemente catalogate, dal mio primo viaggio in queste terre ospitali e voluttuose. Lascio una casa sempre più gonfia di bellezza e affetti. Ho una famiglia meravigliosa di cui sono strafelice.
E, a differenza dei primi goffi viaggi, non ho indossato abiti particolarmente pesanti. Arrivo in aeroporto a ridosso della partenza, pochissimi farmaci e, soprattutto, un bagaglio a mano leggerissimo. Una piuma. Ovvio, non mancano le stesse paure, le stesse malinconie, le stesse paranoie di venti anni fa – temo che me le porterò nella tomba -, ma sono in un certo qual senso arrotondate, smussate, meno zavorranti, nella certezza che a ogni viaggio acquisisco qualcosa: affetti, incontri, sapori, momenti di non trascurabile pura emozione, direi quasi felicità.