Sono diventato bravo con la valigia. Soprattutto ora che sono ultraquarantenne.
Una volta anche per la più breve trasferta di qualche notte mi zavorravo con la mia grande valigia blu. Ogni spostamento era una fatica, ero goffo nei movimenti, l’attesa al nastro bagagli snervante, nei treni mi incagliavo sempre in qualche impiccio. E attendere il bagaglio nel nastro di riconsegna mi emaciava di nervosismo.
Oggi riesco a fare viaggi anche di dieci giorni con un fedele trolley che sfrutta al centimetro la massima capienza per farsi portare a bordo. Dentro il trolley si correla la mia anima sospesa fra un esperto di arte musiva e un fenomenico giocatore di tetris: tutto è incastrato con equilibrata meraviglia, frutto di anni di elaborazioni e tentativi. Pantaloni arrotolati come dei cilindri. Cinture che corrono lungo il perimetro. Scarpe incastonate fra i binari che supportano la maniglia. Medicine in ogni tasca (meglio avere paura che buscarne), le camicie ripiegate con enorme attenzione. E poi i completi, quelli si che incastrano, compressi uno sopra l’altro in un effetto quasi cercato di vacuum.
Si, ho imparato a viaggiare con più leggerezza perché meno si ha più si riesce ad abbandonarsi alla nuova destinazione e a esorcizzare (oddio, questo mi riesce sempre poco) le malinconie dell’abbandono di casa.
Ormai sono più di dieci anni che viaggio per il mondo con regolarità e il motore che mi restituisce sempre tanto di ogni viaggio è questa sensazione contrastante fra la voglia di non partire e un richiamo ulissesco verso le novità e le conoscenze che il viaggio mi porterà.
Leggero di testa e di bagaglio. O almeno ci provo. Sono di nuovo in viaggio.