Le giuggiole

Un vecchio signore delle mie zone mi diceva sempre che le giuggiole portano fortuna. “Speriamo” – rispondevo ogni volta laconico. Mi sono sempre tenuto strette queste parole. Del resto, un po’ di fortuna serve a tutti. E a noi ne serviva assai: Bisarno, la casa di campagna che avremmo dovuto completamente ristrutturare, era piena di queste piante nodose e piene di spine e pruni, dal nome scientifico Ziziphus Jujuba,  che fra fine settembre e per tutto ottobre regala delle drupe color marrone, dal sapore dolce e un po’ aspro al contempo.

Dopo più di un lustro non so esattamente valutare se le giuggiole ci abbiano portato fortuna – sono accadute davvero tante cose bellissime e altre bruttissime: come sempre sono le prospettive e le angolature a dare una sfumatura ogni volta diversa alle verità e solo il tempo mi permetterà una lettura più accurata.

Sicuramente ho avuto modo di osservare queste piante, a voler loro bene, raccoglierne i frutti malgrado non di rado ne venissi ferito, vederne la varie fasi. Anno dopo anno. E constatare che sono ben pochi quelli che conoscono le giuggiole, un frutto antico, se non nella proverbiale e un po’ vuota espressione “andare in brodo di giuggiole”, che rimanda a una certa felice dolcezza e poco più.

Le conoscono in pochi perché prima di tutto sono piante poco diffuse. I giuggioli di solito sono complicati nel loro iter di maturazione e sviluppo. Il giuggiolo è una pianta che proviene dalla Cina, dove è ampiamente popolare, e poi – attraverso la leggendaria Via della Seta – è arrivata in Siria e poi nel nostro Mediterraneo. Dell’ampio bacino del Mediterraneo si distinguono due aree giuggiolifere, per così dire, la Calabria e la Toscana in Italia.

Non si sa per quale motivo fosse molto frequente nelle case contadine toscane. Noce, giuggiolo e fico sono le piante storiche delle coloniche. Col giuggiolo ci si faceva anche un liquore, il “brodo di giuggiole” appunto, della marmellata, magari unita alle mele cotogne, o, più frequentemente, le si consumavano appena cadute dall’albero, un po’ rugose e avvizzite, o spigolate come ciliegie dall’albero, stando bene attenti a non bucarsi.

Peraltro, sono sanissime: contengono in media 20 volte la vitamina C che ha un qualsiasi agrume. Poi la vitamina B. E tanti minerali come il fosforo, il manganese, il ferro. Più che altro, sono proprio buone. Piacciono perchè hanno il sapore del congedo delizioso alla bella stagione, perchè sembrano mela, ciliegia e dattero mischiati tutti assieme, perchè non si possono conservare dopo la raccolta – deperiscono molto velocemente – e quindi si devono mangiare mentre si cogliono, un richiamo gustoso al panta rei e al carpe diem(tutto passa, godiamoci l’attimo).

 Io, ogni giorno in stagione a partire da fine settembre e per tutto ottobre, grazie alla maturazione scalare del giuggiolo (significa che i giuggioli, come i fichi, come tante altre varietà, non maturano simultaneamente ma in un periodo di tempo relativamente ampio) ne mangio una ventina, una trentina e ripenso ancora al vecchio signore. Guardo le piante, le nuove nate, quelle più adulte, gli aculei, l’aspetto tenace. Forse, mi sono detto, sono considerate delle porta-fortuna perché fra le piante più antiche dell’umanità, capaci di prosperare anche in suoli poco fertili.

Agl’occhi di un povero contadino di qualche secolo fa, e anche ai miei, una fortuna.