Ieri sera abbiamo ripristinato in famiglia una delle attività che soprattutto io e Costanza amiamo di più: guardare un bel film tutti insieme dall’impianto cinematografico di casa. E così, uno accanto all’altro, avvolti nelle copertine – eh, si, comincia a fare umido in casa in questi giorni di pioggia – abbiamo visto un’opera deliziosa, capace di incontrare le note sentimentali cercate da Matilde con quelle avventurose di Costanza, oltre a una certa qualità che per me è fondamentale: JoJoRabbit.
Il film è davvero un capolavoro ma quello che mi ha più colpito è un aspetto marginale, la citazione di una poesia di Rainer Maria Rilke che non conoscevo e che costituisce la chiave di lettura dell’opera. Due ragazzini, distrutti negli affetti a causa della guerra e del nazismo, che provano a ripartire, ricominciare, ballando sulle macerie della Berlino devastata dopo il suicidio di Hitler, un attimo prima dei titoli di coda e di Heroes di Bowie: Lascia che tutto ti accada: bellezza e terrore. / Si deve sempre andare: / Nessun sentire è mai troppo lontano.
Oggi avevo qualche ora libera. A casa. E mi sono messo a prendermi cura di Bisarno. In fondo, prendersi cura di Bisarno è un modo per riconnettermi, e per riflettere un po’ su questo inizio autunno che per me è sempre traumatizzante, e quest’anno ancora un po’ di più. E’ stata una giornata intervallata da violenti temporali e anche un po’ di grandine. E sono uscito quasi sempre fra una pioggia e un’altra. Siamo passati da una estate calda, anzi torrida, e siccitosa a un autunno umido, bagnato e già frizzantino. Un cambiamento rapido, non graduale. Mi sono messo zelante a spazzare l’aia, dove giacevano chicchi di uva della pergola – un pergolato che sta già arrossando e ancora con tanti grappoli pendenti -, alcune foglie già accartocciate e le prime noci cadute, ancora col mallo. Le noci lo scorso anno avevano subito una ghiacciata ad aprile 2021 e non avevano allegato. Quest’anno sono tante, e sane. Ne ho già mangiate qualcuna. Mi è rimasto nelle mani quel sapore canforato del mallo che proteggeva la noce. Così come non ho potuto resistere dal suggere gli ultimi fichi neri che ho, il cultivar si chiama Turca: dolcissimi, imperlati di acqua piovana. Col latte del fico che mi appiccicava le mani. Mentre me li gustavo, due tre, non di più, la gatta Ida mi osservava. Lo stesso ho fatto con le giuggiole, che adoro – solo io ahimè – e che ho raccolto sia ancora un po’ verdi dall’albero, e in questi la dominanza del sapore è verso una melina croccante e dolce, che già avvizziti a terra (e qui siamo nel mondo mediorientale del dattero, a cui la giuggiola matura assomiglia tanto). Un un albero di agrume tailandese, il kaffir, che è pieno di limette profumatissime e che ho raccolto. Passeggiando nell’orto ho apprezzato i corbezzoli quasi maturi e uno dei miei melograni grondante pomi di rosso acceso. Erano belli in fiore, in frutto sono spettacolari. Di cachi, invece, pochi o punti: ho due alberelli, ma questo non è stato il loro anno. A differenza delle pere, tantissime, che la Corsi ha poi elaborato in una dolcissima marmellata, mischiandole a qualche melina. Ci sono ancora delle zucchine, stanno nascendo le zucche rotella, quelle che sembrano dischi volanti, salvia e rosmarino sono decollate dopo queste piogge, che ne hanno anche attivato i tanti profumi. E mentre spazzavo, osservavo, facevo qualche fotografia, raccoglievo e assaggiavo, pensavo. E pensavo con una lucidità che ultimamente mi è un po’ mancata. Pensavo che tutto cambia. Tutto passa. Cambia colore. Forma. Stato. Ed è inutile opporsi all’inevitabilità del cambiamento, o pensare se sia in peggio o in meglio.
E le mie mani, sporche, con mille profumi, terrose, umide, anche con un graffio sanguinolente (colpa del limone), erano uno specchio di tutto questo. Me le sono lavate lentamente dal fontanello dell’aia. Percependo l’acqua gelida di pozzo che lavava via tutto, grazie anche alle due mani che si frizionavano reciprocamente. Un brevissimo e pacificante senso di gratitudine e bellezza mi ha pervaso.