Pioggia e primo freddo stagionale in Toscana. Un sabato da cambio dell’armadio e qualche starnuto. Vengo da due giorni di lavoro a Milano. Milano é una città strana. Ci ho vissuto con poche gioie e molte apprensioni in una delle stagioni più buie della storia della metropoli meneghina, fra il 2002 e il 2003. E anche io vivevo una stagione della mia vita non propriamente aurea. Eppure grazie a Milano sono diventato il professionista che credo di essere e, in fondo, anche l’uomo, il Francesco Sorelli di oggi: Milano é stata maieutica per me. Ha preso il mio io intriso di letteratura e lirismo, spaventato e goffo, e mi ha lentamente plasmato in un comunicatore, bravo nelle relazioni e più immediato ed efficace nel mie mezzi espressivi: la parola e la scrittura certo, ma anche l’immagine, la fotografia, il linguaggio del corpo. Sono stati quattordici mesi densi, umorali, quasi dolorosi quelli al Master in Accademia di Comunicazione: eravamo agli albori del digitale e ho avuto la fortuna di studiare professionalmente cosa significa comunicare su mezzi effimeri, peculiari e veloci come internet. In quei mesi ho semplicemente assorbito, questo é il verbo migliore: ho scritto molto, ho frequentato con matta bulimia cinema e teatri, leggevo avido tre-quarto libri in contemporanea sul mio comodino prima di dormire. Ogni sera mi piaceva intrufolarmi in qualche storia: mai vissute, sempre fruite attraverso mezzi caldi e accoglienti come la pagina, o la pellicola, o la penna. E ogni mattino salivo sul bus 90 di viale Tibaldi con un senso di curiosa e al contempo schiva responsabilità. L’inverno piovoso del 2002 lasciò il posto alla primavera e all’estate più calda che io possa ricordare, il torrido e zanzaroso 2003. Fotografie di quei giorni di afa: il mio sudore che dalla pelle mi appiccicava le magliette colorate addosso, gli odori sporchi della metropolitana, le zanzare dei Navigli, la vittoria carosellata della Champions League del Milan mentre io cercavo vanamente di prender sonno e appassionarmi a una Fiorentina moscia (mai quanto l’attuale, va detto).
E, a fine percorso di master, le ansie per il placement, per l’ingresso nel mondo del lavoro: i quattordici mesi erano stati duri, anche divertenti, ma sempre sopraffatti dall’impegno economico che avevamo dovuto tutti affrontare e dalla necessità, dall’obbligo quindi, di un loro ritorno. Per molti dei miei talentuosi compagni (che classe eravamo!), un impiego nel dorato mondo (indeed, non lo era già più neanche allora) dei creativi, come copy.
Io scelsi di tornare in Toscana, forte anche delle parole di Enzo Baldoni. Che storia col senno di poi. Che amarezza. Avevo conosciuto Baldoni fra Accademia e Le Balene, la sua agenzia. Fu il primo che con grande determinazione, nelle stanze della sua agenzia “Le balene”, mi disse di accettare senza indugio alcuno lo stage al Consorzio Chianti Classico che mi era stato prospettato. “Per il resto fregatene, viaggia, non ti fermare, sei sveglio: verranno da sè le cose”. Lacrima. Soprattutto Milano mi regalò, ficcandole dentro il mio mondo schivo e ben poco inclusivo e solo apparentemente aperto, delle amicizie che sento profonde, vere. Una l’ho rivista ieri, nel mio giro meneghino; l’altra si é trasferita a Firenze e, seppur troppo poco, riesco ogni tanto a vedere, e a ritrovare quella splendida consonanza che così tanto mi piaceva sentire nei giorni malinconici di Milano. Ci si confrontava (“mi manca la mi’mamma”, “sono sempre con la valigia in mano”, “vorrei un figlio” – quest’ultimo preciso non era un mio pensiero) perché allora, oggi ancora di più ahimè, i sogni da ventenni erano spesso guastati dalle paure di un paese in lenta crisi.
Tutto ha preso oggi – grazie ai vendittiani giri larghi della vita – una meravigliosa piega: anche la mia prolifica storia di amore che, a Milano, a distanza, appena nata, ebbe modo di provarsi, testarsi e funzionare sul terreno sottovalutato della distanza. E Laura esisteva davvero, checchè i miei compagni dubitassero della cosa…
Torno spesso a Milano. Adesso, da professionista, con una capacità di spesa e di vivere la città diversa da quello sgangheratissimo biennio. Esattamente come il vino ha avuto due vendemmie stranissime, problematiche, così la mia vita, prima di indirizzarsi nel mondo vinicolo, mi ha regalato quei due anni altrettanto stranissimi. Una sottile linea rossa (che film…).
Milano oggi é davvero un’altra città. Ho avuto la fortuna di viaggiare e vivere buona parte del mondo e di innamorarmi di tutto. Milano allora non aveva niente di quel che vantava di avere mentre adesso ha molto di più di certe città che invidia con un evidente ingiustificato senso di inferiorità. Secondo me l’Expo ha fatto molto bene alla città. Ci sono nuovi quartieri, zone meno degradate, c’é finalmente un senso estetico ed é meno manicheo lo iato fra borghesia e popolo. Si é ripreso in mano il grande lascito del design milanese e la moda é tornata nelle strade, fra la gente. Milano sembra aver riconquistato il suo monopolio economico e la sua fierezza, dopo quasi vent’anni di sofferta ridefinizione dagli anni neri, della Milano da bere, della tangentopoli, dello yuppismo berlusconiano che avevano a loro volta scosso e sconvolto la città delle ricche famiglie industriali borghesi secondonovencentesche. E questa nuova identità di Milano, fatta di razze diverse, di diverse egemonie, di una nuova corsa, seppur zoppa e non dimentica del suo chiaroscurale passato, a me piace molto. E a Milano ieri ho mangiato uno dei miei migliori dim sum.