Quando succhiavo le uova.

Io, bambino di città, passavo l’estate nella casa dei nonni, contadini in campagna. Erano tre mesi intensi e ricchi. Ogni giorno mi svegliavo di slancio, ben prima di quando dovevo alzarmi, a fatica, per andare a scuola. La colazione del nonno era a base di peperoni gialli e rossi tagliati a fette e ingentiliti dall’olio e un bicchiere di vino rosso, più spesso due, per darsi la carica. Poi ci salutava fino a mezzodì. Io, solo con la nonna, ogni mattino succhiavo un uovo ancora caldo delle galline mentre lei indugiava un po’ di più sul suo latte con orzo inzuppato fino all’orlo di pane vecchio per stare con me: in altre stagioni dell’anno avrebbe fatto tutto con più fretta e almeno un paio di ore prima ma le piaceva prendersi cura del nipote di città. Con la sua dignitosa vestaglia da giorno in panno arancione ogni mattino mi pizzicava le guance per rendermi più colorato, “sano”, sorridendomi e avvicinandosi coi suoi spessi occhiali da miope che ingigantivano i suoi occhi limpidi: mi vedeva sempre “secco” e “bianchiccio”. Prima che uscissi, mi dava da masticare della menta per tenere la bocca fresca. Quando stavo male mi serviva una tazza di latte caldo addolcito di miele. Se mi vedeva giù, l’antidoto era l’amarissima pappa reale nel piccolo cucchiaio di argento con cui ero stato svezzato. Vivevo “selvatico” fra i campi, scorrazzando tutto il giorno all’aperto, giocando al fiume in mutande e sgranocchiando le carote dell’orto, ancora terrose, quando avevo fame. Si mangiava – soprattutto i nonni – con l’appetito della stanchezza del giorno, la riconoscenza di chi aveva sofferto la fame e il rispetto di chi dà grande valore alla fatica. A mezzogiorno un desinare sostanzioso ma veloce: c’è da riprendere subito i lavori nel campo per sfruttare al massimo le ore di luce. Di sera si cenava quasi sempre nell’aia, alle sette in punto, in grandi tavolate di legno con apparecchiature spartane e semplici dove si univano quasi sempre gli zii e i cugini – e i pasti, semplici e sostanziosi, erano allegri e abbondanti: mi ricordo l’enorme polenta affettata con dello spago e le mani tese di bocche affamate a rumoreggiare allegri la loro giusta e ampia porzione. Spesso le cene finivano coi canti: partiva uno zio – scalpellino in cava – che aveva la voce grossa quasi come la sua corporatura e poi tutti lo accompagnavamo in un crescendo corale che consonava nel ritornello. Per addormentarmi – anche se non ne avevo più bisogno, ero già grandicello – mia nonna, nella quiete dopo tanto chiasso, mi raccontava delle storie: seduto sopra le sue gambe ossute, perso nei suoi vispi affettuosi occhi azzurri, mi pare ancora di sentire le sue parole, che erano le parole di quel mondo antico che era il suo solo e le erano state a sua volta raccontate da bambina, al caldo del canto del camino o al fresco dell’aia. Io durante quei tre mesi mi sentivo un re, coccolato e riverito come un signore: per festeggiare la mia nascita fu piantato il più nobile degli alberi, un nocio, che ancora oggi svetta quasi quarantenne ai piedi dell’aia. Non posso asserire che quello fosse un mondo felice – fatica, miseria e sudore non erano spiccia retorica – ma in un certo qual senso tutto funzionava. 

Un gallo nero in fattoria. Un po’ mi ci sentivo anch’io.