Sei mesi.

 

Sono diverse settimane che non scrivo. Non è un gran periodo. Mi ha accompagnato una febbre alta e persistente, frenata per poche ore da tanta tachipirina, gli oki task per il mal di testa e, negli ultimi giorni, anche dall’antibiotico. Era qualche anno che non mi ammalavo con questa violenza. Non so se l’influenza si sia innestata sui miei turbamenti psicologici o viceversa, cioè se questa febbre ardente, lunga, dolente mi abbia poi portato ai ragionamenti cupi di queste ore. Fatto è che sono stato male sia di spirito che di fisico. Molto male.

In questi 6 mesi, dalla diagnosi, ho cercato di aggrapparmi al presente, all’ottimismo e al pensiero positivo, stringendomi forte alle bambine. Così mi hanno detto tutti di fare. Ho cercato anche di stare vicino a Laura, se non altro nelle logistiche: accompagnare di qua e di là…Poco altro, perché di forza ne ho meno di lei.

Ho cercato di aggrapparmi, sì, di studiare anche le tecniche migliori per stare aggrappato: yoga, meditazione, training autogeno. Ma non penso di esserci riuscito e la stanchezza che mi sento addosso, questo viso più bianco del solito, la mia barba lunga e incanutita, senza più gli irriverenti toni aranciati del mio rosso malpelo, mi ricordano la vacuità dei miei sforzi. Non sono più la persona che ero prima: prima ero brillante, quasi arrogante nel mio modo di aggredire il mondo, di costruirmi un futuro come professionista, come uomo, come babbo. Pieno di idee, di brio, di voglie, di creatività. Quel Francesco, malgrado i miei tentativi, non c’è più e adesso cammino fra le macerie del mio passato, inquieto del mio presente e con tanta paura di quello che potrà esserci domani. Non c’è nessun piano temporale dove io possa trovare un po’ di serenità. Oggi sono così: rigido, bloccato, inteccherito. Delle volte penso che mi farebbe piacere lasciarmi andare a un pianto, a liberarmi del carico delle emozioni negative. Ad aprirmi a qualche amico. E invece non ci riesco più.

Mi sono sempre immaginato dentro un viaggio che non avremmo mai voluto fare. Forse dopo 6 mesi sono nella situazione più difficile: lontanissimo dalla riva, lontanissimo dall’approdo. E ho lasciato che dentro di me strisciassero la rabbia (“perché è successo proprio a noi?”) e la depressione (in certi momenti mi sento proprio senza tono, senza spirito vitale). Ho perso anche mio babbo, a dicembre. Un dolore sordo, a cui non riesco a metterci nemmeno il pensiero, il ricordo, per il vuoto assoluto che provo. E meno male che con le bambine, con Matilde soprattutto, riesco ad abbracciarmi forte, a fare dei coccolini reciproci che sono come unguenti per le mie ferite. Questo prima non avveniva. Forse ho comunque maturato delle aperture inconsce del mio io, che mi permettono almeno un po’ di godere delle mie bambine e, in definitiva, di farmi aiutare, di aiutarmi a sbloccare.

Sono 6 mesi che mi dico che torneremo comunque a essere felici. E in fondo ci credo anche. Riesco a vedere un po’ qualcosa, a togliermi da questa nebbia esistenziale in cui mi trascino. E dico che ce la faremo. E che devo davvero lottare, perché ho una famiglia bellissima, ho una casa bellissima, ho un lavoro bellissimo, ho tanti amici che mi vogliono bene. Che tutto questo l’abbiamo costruito, ce lo siamo preso e conquistato. Oggi è difficile, ma ogni giorno può portare qualcosa di nuovo. E non deve essere necessariamente in peggio. Le cose possono girare. Ci sarà la guarigione e io, noi riusciremo di nuovo a guardare alla vita con la solita irriverente spensieratezza di prima.

Per adesso devo provare a fare pace con le mie inquietudini. E osservare le mie nuove piantine di peperoncino appena germinate. Che cercano il sole e si abbeverano di luce.