È un fine settimana perturbato e umido, dove il riposo operativo, l’otium latino, con cui di solito elevo i miei sabati e domeniche, si è svolto con ritmi un po’ più bassi del solito, quasi assecondando le uggie del tempo.
Ho caracollato quindi per quasi due giorni fra il lastricato e la terra seminata, fra la terra fresata per l’orto e gli alberi da frutto sparsi un po’ dappertutto (il pesco ha la “bolla”, gli altri prosperano, fra gli agrumi – quorum i novissimi cedro della Corsica e il chinotto di cui è ghiotto un amico brianzolo – appoggiati al lato ovest (il più caldo e meno ventoso) e la struttura dove appoggio i miei vasi di peperoncino, fra la torre in casa trasformata in semenzaio e il lembo di terra sotto il muro sud della concimaia dove ci vorrei mettere un po’ di pomodori.
È l’attesa la parola che più mi ha accompagnato. L’attesa per l’erba che palesi finalmente i suoi primi fili d’erba. Per i semini piantati nelle cassette della frutta e stoccati nella torre. Per l’orto che verrà, dove sto giocando fra le linee e gli incastri con dei cordoli di calcestruzzo che faranno da bordure ornamentali. Per lunedì, che darà il via a un periodo lavorativo carico di viaggi e di impegni per i quali provo sentimenti fra l’entusiasmo e la preoccupazione.
Un fine settimana sospeso, diversamente bello, con un po’ di pioggia e un po’ di sole, di ricordi agrodolci e di aspettative, ingentilito da un sabato sera dolce, a due, in un ristorante d’autore incastonato in un borgo a coccolarmi la mia lei. Da una Fiorentina che vince da squadra, giocando col cuore a Genoa. Dai primi germogli di cavoletto e di pomodoro. Da un tramonto che lascia intravedere quanto imminente sia la stagione prossima ventura.