Ancora un fine settimana di pioggia. Una pioggia diversa, sana, che ho imparato a riconoscere e distinguere a forza di subirla chino nel campo, nei giorni in cui posso dedicarmi al mio orto e al mio giardino. Questa di oggi mi pare una pioggia piacevole, ubertosa, che non impedisce cinguettio degli uccelli, che non chiude i papaveri, che non costringe i gatti a cercare riparo, che bagna ma non allaga o bucherella le piantine.
E si che ne è venuta tanta. Sentirsi la pioggia addosso, dopo anni in cui mi infastidiva anche una sola stilla nei miei pochi capelli, mi ha riportato agli anni del calcio, quando ci si allenava in campi di terra e pietrisco che diventavano mota e lamette, ed era divertente infangarsi dalla testa ai piedi, sentirsi vivi, e poi la doccia calda, e poi dalla nonna per la merenda fuori orario con un pacchetto di Rigoli nel latte e cacao e Bimbumbam a intrattenermi su Italia1 e poi arrivava mio babbo a riprendermi.
O, più recentemente, questa pioggia primaverile che mi tamburella mentre sto con le piante, mi riporta a una lettura di un paio di anni fa, quando ancora Bisarno non era pronta e io mi stavo formando sui libri alla vita di campagna: L’orto di un perdigiorno, di Pia Pera, dove in uno dei capitoli si parla di una giornata piovosa trascorsa fra i profumi, i rumori e la vitalità dell’orto e del giardino. Un momento di profonda intesa con la natura. Li per li mi erano sembrate parole un po’ letterarie, quasi dannunziane, ma adesso che certe sensazioni le ho esperite sulla mia pelle, le ho riconosciute come vere, vibranti, ne ho percepito la bellezza timida ed elegante, quelle pagine le sento ancora più mie.