Da anni non tolgo più la valigia dalla camera. Questo mi ha aiuta a esorcizzare il mio dicotomico approccio ai viaggi, portando al centro della mia vezzeggiata intimità domestica il più classico simbolo del mio necessario ulissismo. Ormai la mia scafata abitudine al viaggio di lavoro si è palesata in valige sempre più ridotte: oggi mi muovo con una splendida Samsonite con numerose tasche e vani ottimizzati in pochi centimetri che so esattamente come riempire. Più si è leggeri (anche di testa) e meglio si viaggia. Riesco a fare spostamenti di più di una settimana col solo bagaglio a mano. Conquista recente e abilità non innata questa, a onor del vero. Ricordo infatti che, le prime volte fuori casa, anche le più brevi delle trasferte mi autoimponevano una enorme valigia da immigrato e lunghi e meditati giorni di preparazione. Come se mi volessi portare con me tutto il mio piccolo mondo, costituto sempre di maglioni larghi e morbidi, di completi con spalline in cui scomparivo sgangherato e scarpe di un numero più grande modello superpippo, dal quale imitavo spesso anche – ossessionato dagli imprevisti e dalle imprevedibilità della già di per sé fallace scienza meteorologica – l’utilizzo di un pigiama vecchio e stretto portato a mo’ di calzamaglia sotto i pantaloni buoni. Il peso della mia assenza dal nido era oggettivamente correlato ai fardelli che mi gravavano il viaggio. Ero ridicolo, goffo, volenteroso e di quel me neanche troppo remoto provo ancora affettuosa tenerezza. Oggi il mio organismo ha caldo, sempre. Sono chirurgico prima di ogni viaggio, sebbene strisci sempre chiaroscurale una certa irrequietudine. Soprattutto da quando sono babbo. Non porto più maglioni ingombranti. Gli hotel in tutto il mondo non soltanto sono più o meno tutti uguali (per questo quando viaggio per piacere esigo delle case tipiche come alloggio per godermi davvero la vacanza e capire il luogo) ma sono sempre anche caldissimi, e con l’aria secca che al mattino a soffiarmi il naso mi viene sempre un po’ di sangue: anche il pigiama con gli orsetti in pile che mi occupava da solo un quinto del valigione complicando sempre tutto (ma non ci avrei rinunciato per nessuna ragione) è usato solo per le più algide giornate di gennaio a casa, mai abroad. Il bagaglio ormai è quasi sempre solo a mano perché non sopporto più la gestione del ritiro bagagli agli aeroporti e il dover perdere tempo ad aspettare: quante volte poi me la hanno smarrita, facendomi fare figure imbarazzanti agli eventi in cui ero chiamato a partecipare. A Kitzbuhel una volta non mi consegnarono la valigia dove tenevo tutto. Viaggiavo con l’allora titolare di Ruffino, lui sempre bello, impeccabile, aduso a vivere in viaggio, signorile ed elegante. Era un freddo febbraio del 2008, neve altissima sulle alpi austriache e nel paese famoso per la discesa libera, il casinó e la bella vita. Io avevo fatto il viaggio con un golfone rosso con le renne inguardabile, ma decisamente caldo e coccoloso, conscio che avrei trovato molto freddo e mi sarei potuto poi sistemare con giacca e cravatta in albergo. A Kitzbuhel peraltro dominava una eleganza pacchiana, pelle lucida nera, borchie, trucchi pesanti e pellicce. Sotto il golf avevo una ulteriore maglina bianca di lana. La sera mi aspettava una serata di gala in un sofisticato ristorante in paese.
Quindi: hotel tardo impero, io senza bagaglio, vestito come il primo uomo al polo nord, a due ore dalla seratona, nessun abito adeguato da indossare. Per di più cominciavo anche a puzzare, vuoi lo stress, vuoi il caldo in albergo, vuoi l’eccesso di protezione che mi dava quello scafandro di lane addosso. Mi spoglio e provo a lavare con acqua e sapone, soprattutto in zona ascelle, almeno la maglina che indossavo sotto il golf. Mi faccio la doccia per cercare un minimo di relax mentre lascio che il phon asciughi da solo la maglina, appoggiandolo accanto alla fruit col tasto on e alla velocità turbo. A un certo punto sotto la doccia sento una sirena violentissima. Allarme antincendio. “Stupido picchio”, penso. Mi metto addosso al volo il setoso accappatoio a verificare la natura dell’ennesimo imprevisto della giornata austriaca. Si: la mia fruit surriscaldata dal phon aveva preso fuoco e il fumo aveva attivato il rilevatore antincendio. Rapidamente calpesto la maglina con le prime fiammelle e riesco a spengerla.
Quella sera mi sono proprio sentito stranito, a cercare di non grattarmi per il pizzicore del maglione rosso rennuto dovuto portare sulla pelle nuda, gli altri bellissimi e sofisticati in smoking o completo scuro. Parevo l’imbecille della serata mentre fuori una calda costante nevicata ovattava il tutto e tutti dentro nei loro eleganti vestiari parevano divertirsi ed essere completamente a loro agio.
Qualcosa é cambiato ma io sono ancora per molti aspetti quel Francesco carico di vestiti soffici e caldi addosso, non più sgraziatamente portati fuori ma indossati con le stesse affettuose e avvolgenti inadeguatezze dentro di me.
Tempo di andare. La mattinata è grigiastra e i vetri della camera hanno fatto condensa, diluendo come in un quadro impressionista la vista di fuori. Ripiego il pigiama, lo tolgo dal letto e lo chiudo con meticolosità nell’armadio. Si parte.