Ci sono storie architettoniche nel restauro di Bisarno che paiono ingrovigliarsi fra mille difficoltà per poi dipanarsi in un lieto fine che regala entusiasmo, energie, motivazioni per le tante altre da affrontare e dal destino ancora da determinare di qui a qualche anno.
Questa che vo’ raccontando è proprio bella: infima nella sua inutilità, sconsigliata da tutti, visionaria perché di incerto risultato, dubbia nella filosofia e di ulteriore aggravio economico: “Lascia perdere, sono altre le priorità”, intonava il corifeo. Eppure, quei due mozziconi bianchi, in bianco alberese con sfumature gialle, residui di un importante arco strutturale nella torre di difesa, quindi la parte medievale e più antica di Bisarno, quasi invisibili e nascosti e da successive murature e ridefinizioni delle aperture, mi avevano da subito ipnotizzato. Come la siepe del Leopardi. Senza indugiare ulteriormente in una tronfia retorica da spot pubblicitario all’Amaro Montenegro, ecco la cronaca di una anastilosi molto particolare. Concettualmente l’arco non aveva più essenza: non strutturava né scaricava più niente. L’intento era valorizzarlo, ma solo per esaltazione della sua estetica e della sua unicità lapidea, non più per la sua raison d’etre. La logica consigliava una cristallizzazione del residuo, una evidenziazione delle sue periferie per farlo risaltare maggiormente attraverso una stuccatura più marcata. L’arco del resto era stato distrutto dalle successive ridefinizioni murarie e solo l’incipit di destra ancora presente, nascosto nelle murature.
Tuttavia di archi in quel modo non se ne vedono quasi più. Inoltre, sparsi nel tessuto murario della casa, riutilizzati nella logica del non si butta via niente e della necessità, in zona cantonali o a casaccio nel mosaico litoico della muratura a vista, vi erano i denti che una volta erano i pezzi di quel suggestivo arco bianco in alberese. Lo stesso alberese giallo affiora da Bisarno, sta nel suolo.
Alla fine, quindi, ho optato per una operazione di recupero di gestalt storico-estetica, lasciandone perdere la funzione strutturale ma ricostruendolo in toto, cercando dei modelli coevi (due-trecento turrito del fiorentino) per avere una idea dei disegni archetipici e facendoci guidare dalle curvature che si intravedevano nelle tre pietre residue.
L’arco è un elemento murario che mi ha sempre affascinato ma che di solito alla fine preferisco quasi sempre intonacare, soprattutto negli interni, per evitare l’effetto pizzeria. Questo invece era diverso, diversissimo. Già cercare e ritrovare le pietre è stata una storia nella storia. Le stesse sono state chiaramente predisposte – quelle che non lo erano, perché alcune erano proprio i pezzi dell’arco ma murati altrove come scritto qui sopra -, per ri-farsi arco, attraverso la definizione di una forma trapezoidale con una curvature funzionale a creare un sesto ribassato, attraverso flessibile e scalpello. La chiave di volta, ovvero la pietra centrale, a bisettrice, è quella che ci ha dato più difficoltà: la sua cuspide è stata prima fatta eccessivamente puntuta, quasi arabeggiante, poi alleggerita, addolcita, con una successiva riscrittura a scalpello.
Una anastilosi in piena regola. Lunga, faticosa, complicata, discussa e discettata ma che alla fine ha restituito, secondo me, un pezzo di storia muraria e architettonica, vero con una ricostruzione a posteriori e attraverso la creazione di un “falso storico”, ma attendibile e apprezzabile. Siamo tutti molto soddisfatti: l’opera ha creato un bel clima, soprattutto alla fine. Prima, durante e dopo ha generato mille discussioni fra storia, estetica, architettura e spiccia convenienza muraria.
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Solo un occhio attento individua il mozzicone d’arco… |
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Eccolo qua…smurando un po’ attorno, è ben visibile. |