Una settimana lunga un mese. Dall’estate della Florida alla primavera della California fino alla inverno di NY, dove un gelido vento ha portato anche un po’ di nevischio. Tre città meravigliose: la Miami del lusso, del design, dell’art deco, delle spiagge infinite, ma anche di tanti homeless, immondizia, strade degradate.
San Francisco, con la vastità della sua baia, il suo porto col Golden Gate Bridge che ti fa venire voglia di credere nelle infinite possibilità di ognuno di noi, le sue colline abitate, la Best Generation, le splendide case vittoriane, queste influenze spagnole, italiane che trovano e si miscelano in una idea di America fra l’hippie e lo zen, ma anche di costi della vita diventati ai più ingestibili, un sistema di trasporti pubblici non funzionali se non nei pittoreschi e turistici cable car, e il traffico che rallenta tutto.
E infine NYC, la più bella del reame, dannatamente fredda e ventosa (uh salto di 30 gradi per me venendo dalla California) ma per fortuna soleggiata, aperta, moderna e antica, classica e Novecentesca, un incontro fra il caotico e l’ordinato di culture, popoli, sapori, le cisterne dell’acqua che spuntano dai tetti a fianco di moderni building, i vapori che trasudano dai tombini delle strade solcati da Porsche e Ferrari, le piccole grocery dal profumo di cannella e caffè tostato frequentate da sofisticate ed elegantissime signore, i suoi splendidi ponti, le passeggiate e i mercati coperti. Ma anche un certo girare a vuoto su stessa alla costante ricerca di un what’s next, di una magnifica sorte e progressiva, di una nuova mirabilia per stupire il mondo, di una identità comunque scolpita al mito del denaro, a fagocitare l’anima più calda e autentica della grande mela.
Sono cinque le urbanizzazioni visitate se considero anche i borghi californiani di Larkspur e Napa, perfetti nel loro essere “californiani” – eleganti, puliti, assolati, green – ma forse appunto troppo perfetti, irreali.
E le persone, tante, ognuna con una sua storia e che hanno colorato ancora di più questa settimana di lavoro: persone che conoscevo e che ho ritrovato, altre che ho incrociato per qualche ora, altre ancora con cui ho passato del tempo, ho spartito una passeggiata, ho condiviso un piatto, ho raccontato dei vini. Il vino e Ruffino (che l’America l’ha conquistata oltre 100 anni fa, portando, con l’iconico fiasco, agli immigrati e agli americani stessi, una idea di Italia bella, accogliente e gustosa) che ancora una volta mi ha permesso di aprirmi alle diversità, di accogliere col sorriso chi è venuto a trovarmi, nei posti in cui mi sono seduto e alle persone a cui ho detto “sono Italiano”. Malgrado il virus.