I progressi inconsci.

Il fienile e il nocio visti dalla torre.

Dal 14 agosto abbiamo congelato volutamente tutte le nostre attività di ristrutturazione di Bisarno, in una attesa stordita e catatonica di un qualcosa che avevamo e ci era sfuggito fra le mani. Quel qualcosa non tornerà più e lentamente, dopo un mese, un mese e mezzo, di complicati e sterili arrovellamenti mentali di quello che ci è accaduto e di quello che dovremo vivere, la nostra vita, in parte pilotata dal nostro inconscio più profondo e dall’esempio di alcune persone meravigliose che ci circondano (due di loro molto piccole, ma solo di età!), ha ricominciato il suo fluire, un suo corso attivo dal sapore agrodolce ma che non disdegna piccoli profondi attimi di felicità.

E anche quei lavori che avevamo sanciti come stoppati, in realtà – piccolo lavoretto dopo piccolo lavoretto, piccolo sforzo dopo piccolo sforzo – oggi si palesano come significativi passi in avanti.

La facciata di ingresso di Bisarno è stata stuccata per circa metà della sua ampiezza: sono state prima ripulite le vecchie murature, poi sono state rifatte alcune murature, e infine nelle fughe, negli interstizi fra pietra e pietra è stato messo la biocalce, che dona alla casa quel meraviglioso legante color ecrù fra il grigio del galestro, il bianco dell’alberese e il granato del mattone.

Il caco e la facciata esterna, in progressiva stuccatura.

Abbiamo poi ereditato dalla casa in Casentino che era dei nonni materni, un luogo dell’anima e che tanto mi ha ispirato – per l’acquisto di Bisarno, per il libro La Toscana di Ruffino, per il blog, per la mia idea di famiglia – alcune mobilia che ho trasferito da Borgo alla Collina, a settembre, nella sala grande di Bisarno, quella che al momento della ristrutturazione di Bisarno era ancora una stalla, mangiatoia inclusa: un bel divano in legno massello e midollino; una fratina per le nostre occasioni gastronomiche invernali; un mobile stile anni Trenta che, ad aprirne i cassetti, mi fa stringere il cuore perché odora di nonna, di vita di trent’anni fa a Borgo, di un me piccolo che giocavo a Scarabeo con la nonna, la zia Carla e una quarta persona della quale i fogliolini coi nomi, scritti di mio pugno giovanile, ritrovati dentro la scatola ancora integra non mi permettono più – ahimè – di ricordarne l’identità.

Uno sguardo della sala “casentinizzata”.

Poi abbiamo le nuove piante: non c’è niente di più ancorante al presente che dedicarsi al proprio orto-giardino e lasciare una traccia attraverso la messa a dimora di nuove colture, soprattutto quando i lavoretti sono eseguiti con le bambine e i gatti ad assisterci. Raccogliere le noci nella terra umida, gonfie di pioggia e odoranti di balsamico, con le mani che si sporcano di quel nero che non va mai via, è un esercizio di presenza fortissimo. E ho provato a far mettere radici a tante verdure invernali, sperando che i fortunali di queste ore non abbiano dilavato troppo il terreno. E poi abbiamo tre nuovi alberi, che si affiancano agli altri: due ciliegi e un pero. Ancora piccoli astoni sotto i tre anni ma che, in futuro, regaleranno frutti e già adesso la bellezza. La bellezza è essenziale.

Infine lo studio: la necessità di Laura di trascorrerci molto più tempo, e comunque l’opportunità di avere una base di appoggio di lavoro, lo ha reso vivo, elegante, professionale e caldo, col tavolo-ragno, che io avevo disegnato e fatto sviluppare per la casa precedente di San Francesco, ad accogliere atti e fascicoli.

Andiamo avanti. Senza troppo pensare. Concentrati per quanto difficile sia su questo presente che ha solo nascosto, ma non distrutto, le tante occasioni di felicità della nostra vita.