Ciao Fulvia

Orange, Fulvia, Ida.

La gatta al centro della foto si chiama Fulvia. E’ stata il primo gatto a cui ho dato confidenza, o meglio: lei me l’ha data a me, entrandomi in casa (e spaventandomi), appena cucciolotta. Da quel giorno di contrasti, è nata poi una sintesi squisita di presenza in distanza, vigile ogni ora sull’uscio di casa. Per 4 anni.

Il gattone arancione con cui ogni giorno scontra fiduciosa la testa è suo figlio: Orange: ahimè, la fantasia per i nomi l’abbiamo riposta solo per i pennuti. Coi gatti, ci limitiamo a chiamarli per vezzeggiativi dei colori. Orange è il gatto addomesticato: vive in casa, grazie agli esperimenti sorvegliati e ripetuti della mamma Fulvia. E io, noi, abbiamo imparato a prendercene cura e a instaurare una consuetudine d’affetto, per me pressochè inconcepibile con gli animali, fino a qualche anno fa. Orange è il dardo lanciato da Fulvia.

Non a caso, ci è persino venuta voglia di prendere una nuova gattina, e di farla crescere in casa e con noi fin da subito: è la piccola gattina Ida, che dalla foto sembra quasi invidiare e cercare, dal vetro, la perfezione di quelle testate fra mamma e figlio: l’abbiamo scelta col pelo lungo e tricolore, esattamente come la mamma putativa: “E’ bella quasi quanto Fulvia!”, è stato esclamato al suo arrivo.

L’altra notte Orange- non lo fa mai – è venuto a dormire accanto a noi, ai piedi del letto. Serpeggiava una strana inquietudine. La mattina dopo, uscendo, abbiamo visto Fulvia riversa a un lato della strada davanti casa, uccisa, molto probabilmente, da un auto. I gatti son bischeri, si buttano sempre all’ultimo momento…maledizione.

La vita di campagna ci ha portato in dote la vicinanza con tanti animali e una onnipresente alternanza vita-morte. Una ghiacciata che brucia gli olivi. Un pollo portato via dalla faina. Un insetto che ci secca un agrume. Una farfalla variopinta che poco prima volava e poi che cade a terra. E nel mezzo anche cose ben più gravi, “umane”, come una grave malattia in famiglia e, soprattutto, la perdita lancinante di mio babbo. Mi dico che era una gatta, solo una gatta. Vero. Ma la malinconia che mi attanaglia è tanta, soprattutto a rivedere questa foto di qualche giorno fa: rappresenta, in fondo, la costruzione di un amore, nella sua danza a tre tempi, in qualunque forma lo si intenda: la diffidenza curiosa, il sentimento reciproco e mutuale, la fiducia incondizionata.

E questo me lo ha insegnato la gatta Fulvia.