Oggi il cielo sopra di me ha cambiato colore più volte, scolpendo prospettive ogni volte diverse: atmosfere ora decadenti, ora malinconiche, ora cristalline, ora turgide di una pioggia più volte promessa e che avrebbe bagnato Bisarno, soffiata da un vento freddo, solo col buio pece della notte.
Ho trascorso nell’aia gran parte della giornata: solitario, pensante e laborioso. Avevo da spostare sassi per facilitare il lavoro dello scavatore e da gestire un falò – novello prometeo – appiccato con fatica nella concimaia, anche questa destinate alle mie smanie di movimentazione. Ogni tanto il lavoro (duro, checchè molti dubitino delle mie possibilità fisiche!) mi estraniava dal mio pensiero, assorbendomi completamente: una sensazione piacevole, quasi lisergica. Mi riportavano alla cognizione della mia azione le ventate che mi facevano sentire il sudore addosso e il peso eccessivo di alcune pietre che non riuscivo a spostare. Ogni tanto alzavo gli occhi per godermi le differenti incidenze della luce su Bisarno, la trama secca e articolata dei rami ormai spogli, il rumoroso silenzio della natura attorno a me. Mi sono aggrappato a questi momenti perché li ho trovati belli e pacificanti: ho provato a scattare qualche fotografia, ma le pose non restituiscono abbastanza di questi attimi di epifanico panismo.
È arrivata la sera, il fuoco – dopo aver crepitato superbo lungo tutto il pomeriggio – si è acquietato fioco nel suo caldo letto di cenere. Tre macie a testimonianza della mia opra quotidiana.
Una doccia a lavar via sudore, terra e caligine e poi la spesa – domani abbiamo ospiti a pranzo -, per poi concludere con una pizza noi quattro. Mi dolgono le braccia, la schiena quasi cigola quando mi piego e le mani non riescono a stringere niente (anche digitare per scrivere è doloroso) ma mi sono sentito “fibra dell’universo” oggi, sereno come raramente riesco a essere: un esorcismo dalle mie paure e dalle mie preoccupazioni terapeutico e necessario.