Leggenda vuole che nel costruire Palazzo della Signoria a Firenze, il celeberrimo “Palazzo Vecchio”, l’architetto Arnolfo da Cambio avesse cercato di farlo bello quanto il Castello dei Conti Guidi in Casentino.
Il Castello, detto di Poppi per la vicinanza con l’omonimo borgo, fu definito dal Vasari il “prototipo” dei palazzi fiorentini e domina tutta l’ampia vallata del Casentino. Nel 1289 costituì il perno focale della Battaglia di Campaldino fra Guelfi fiorentini e Ghibellini aretini, che vide impegnato anche un giovane soldato di nome, bravo con le parole, meno con le armi, Dante Alighieri, ed è ancora oggi il centro storico e culturale da cui partire per questo nostro viaggio sentimentale in Casentino.
Il Casentino. Molti di voi magari non conoscono questa aspra valle montana incastonata fra Firenze, Arezzo e la Romagna, ingiustamente meno nota fra le tante blandizie della magnifica Toscana.
Io, che dichiaro subito essere di parte (del cimitero di Borgo alla Collina – dove vivevo coi nonni – conosco quasi tutte le epigrafi, anime che una volta ingentilivano le mie estati: capirete quanto forte sia la mia partecipazione verso questi luoghi), nonchè discreto viaggiatore del mondo, affermo che raramente ho incontrato territori così ricchi di sapori, cultura, spiritualità, mestieri e natura, e, in estrema sintesi, bellezza pacificante e quasi mistica.
La natura sopra tutto. Il parco delle Foreste Casentinesi presenta una biodiversità superiore a qualsiasi altra alpe in Italia. Fateci qualche camminata. Ci sono sentieri per tutte le difficoltà, e tutti di assoluta meraviglia. In questa natura incontaminata sono sorte fiabesche abbazie, intime pievi, sublimi luoghi sacri: dal magniloquente complesso di Vallombrosa (dove si sono sposati i miei!), alla spirituale Pieve di Romena, dove D’Annunzio amava correre a cavallo insieme alla sua Eleonora Duse, entrambi nudi, passando per l’eremo di Camaldoli e il santuario della Verna col “crudo sasso intra Tevero e Arno” (Paradiso Canto XI), dove Francesco ricevette la “stimmate”. Le vie delle fede, percorribili con l’animo del pellegrino e con gli occhi sognanti del viandante, si intersecano coi mestieri, con le mani che si piagano di fatica e rughe che hanno reso il Casentino e le sue genti uniche. Il mio nonno Giulio, così come il suo fratello Elio, forse ancora più dotato (ricordo ancora i giornali quando zio Elio vinse il “Prezzolini” per i suo lavori a Notre Dame a Parigi), era uno scalpellino, un “artista della pietra”. Trascorreva le giornate in una cava piena di magia, e quella che al mattino era pietra serena, l’indomani diventava deità, volto, stipite, statua, caminetti (quanti ne hanno fatti di caminetti!). Talvolta andavo in cava da lui: mi dava un suo mazzuolo, un suo scalpello, e io provavo goffamente a imitarlo, inalando polvere e gioia infantile per rupestri scarabocchi incisi maldestramente su quelle lastre vive. A Ponte a Poppi mia zia Teresa (beh, non propriamente una zia, ma io chiamavo tutti zii e zie), lavorava in casa al vecchio telaio: era una tessitrice fenomenale, minuta accanto al suo gigantesco strumento di lavoro e arte – e gigantesco talento: faceva i tessuti per Jacqueline Kennedy, Rita Levi Montalcini, Giovanni Paolo II, che una volta la ringraziò anche con una lettera personale. E pensare che io mi annoiavo quando coi miei si andava a trovarla nel suo laboratorio e lei come regalo, per titillare la mia attenzione, mi intesseva ogni volte una copertina, cercando di strappare un po’ della mia attenzione da puttino annoiato. Copertina a quadroni verdi, blu, neri, con la quale l’altra sera ho visto Sanremo, avvolto nella stessa con la mia bambina. E che dire del panno Casentino, con gli splendidi tabarri, giacche, mantelle arancio o verdi? Ne ho uno che porto gelosamente ogni tanto. “Tua madre indossava un cappotto di Casentino, arancione e violento come il sole che avremmo trovato d’estate”, scrive Margaret Mazzantini nello splendido “Non ti muovere”.
Quando torno in Casentino, e lo faccio troppo di rado, apro ancora i cassetti di casa della nonna – alcuni mobili sono ora in casa mia – e quel profumo antico e polveroso mi rimanda indietro nel tempo, alla sua alchemica abilità di cuoca: i tortelli di patate del Casentino non hanno una suonata unica ma infinite partiture, e quelli di nonna Bruna erano per me il cibo più buono del mondo. lo dico anche ora quando gioco a fare la classifica dei piatti più buoni.
Del resto, magari, mentre la nonna faceva la pasta in casa, ero andato io stesso al mattino a prendere le patate bianche a Cetica (da visitare anche i bagni termali di Cetica, antica vasche romane di pietra con l’acqua gelida, ndr), con lo zio Gigi, e nel frattempo avevamo fatto anche una pescatina di trote nel Solano, visto che le piogge dei giorni prima avevano “mosso” le acque e favorito la pesca. E gli affettati: c’è un maiale autoctono che si chiama Grigio del Casentino, lavorato in tanti laboratori nel celeberrimo Prosciutto del Casentino, ora un presidio SlowFood, ai tempi poco considerato da tutti. Infine: le torte della zia Carla. Non c’era visita in cui l’ospitalità di zia Carla e zio Nello non parlasse col profumo soave, affettuoso e accogliente di un ciambellone coi pinoli, delle meringhe coi bianchi avanzati delle uova , di una crostata con le more di rovo, abbondantissime ogni agosto, sopratuttto quelle della località Omomorto (dopo la guerra ci avevano trovato un cadavere…).
Ogni volta che ritorno, grandi mangiate e visite a paesi uno più bello dell’altro: ho già citato all’inizio di questo elenco sentimentale Poppi, inserito nel circuito dei “borghi più belli d’Italia”, ma che dire di Stia? Stia compare nel film del Pieraccioni “Il Ciclone”, ci sono musei – dello sci, della montagna, della lana -, un centro del paese tutto in salita, come sono tutte le cose belle: un po’ faticose da conquistare, ma poi che piacere una volta in alto. A Stia poi c’è l’Arno, appena sorto dal monte Falterona – luogo sacro per gli Etruschi -, dove si può fare ancora oggi il bagno, e un parco avventura divertentissimo fra gli abeti di Douglas secolari. Pochi chilometri più su, uno di questi abeti raggiunge l’altezza certificata di 62,45 metri ed è a oggi l’albero più alto d’Italia. E poi Montemignaio coi suoi mulini e le farine, Badia Prataglia, dove una volta vi era anche una stazione sciistica, il “mio” Borgo alla Collina, Bibbiena, Pratovecchio, Talla…
Non vi è venuta voglia?