Il Ranavuottolo.

Giacomo Leopardi (Elio Germano) insieme a Antonio Ranieri (Michele Riondino) a rimirare il Vesuvio nel bel film “Il giovane favoloso” di Mario Martone

Gli anni di Giacomo Leopardi a Napoli sono una pagina bellissima ma poco nota. A Napoli, Leopardi riesce a vivere davvero la sua vita, a vincere per un po’ il nichilismo e il suo disincanto disperato, freak fra i freak, e a creare la sua opera più grande, il suo manifesto filosofico e artistico , grazie proprio all’ombra chiaroscurale del Vesuvio, l’arida spietatezza dell’esistenza e alla meravigliosa e seducente gente di Napoli (la solidarietà umana offre davvero una possibilità di riscatto): “La Ginestra”, il fiore che spunta dal deserto.

Quando Giacomo e Antonio (l’amico Ranieri, incontrato a Firenze) nell’ottobre 1833 arrivano a Napoli, Leopardi è un giovane di 35 anni incanutito e gobbo, semicieco e afflitto da continui problemi fisici. Una delle ipotesi più accreditate dalla medicina moderna è che il poeta recanatese soffrisse di spondilite anchilopoietica giovanile, una gravissima malattia degenerativa che iniziò a manifestarsi all’età di 16 anni circa, ragazzetto nel suo palazzo, negli anni di “studio matto e disperatissimo” a Recanati, Marche Pontificie, dove era nato il 29 giugno 1798 da Monaldo e Adelaide, primo di tre fratelli: Giacomo, Carlo e Paolina.

Leopardi, al di là di certe letture facili sulla causa della sua malinconia e delle sue riflessioni sull’amarezza dell’esistenza, era una persona velata certamente di ombre e paure ma avida di amore, curiosa della vita, affettuosa e epicurea: l’arrivo a Napoli (1833) rappresentò per la biografia leopardiana un meraviglioso gioco di specchi e contrasti fra l’animo del poeta e quello della città del Vesuvio.

Napoli era la Napoli di oggi, ancora più gorgogliante di vita e umori, pittoresca, teatrale e scenografica. Ai tempi era la quarta città più grande d’Europa, dopo Londra, Parigi e San Pietroburgo, con profondi iati fra la Napoli borbonica ed ecclesiastica dei salotti intellettuali e la Napoli degli scugnizzi e del popolino, delle notti irriguardose nei quartieri meno nobili.  

Leopardi era già “Il favoloso Leopardi”. Gli anni fiorentini, così come i periodi trascorsi a Roma, erano stati una grande, grandissima delusione, umana e artistica. La città dell’arte, degli incontri e del Rinascimento si era chiusa fra le sue mura accigliate e superbe in un disprezzo livoroso verso quel poeta sghembo, pessimista e nichilista. E’ di Niccolò Tommaseo la sprezzante definizione sul Leopardi: “di lui nel Novecento non ricorderanno neanche la sua gobba”. Oggi quasi nessuno sa chi è Tommaseo, mentre chiunque, anche inconsciamente, cita nel suo parlare espressioni di Leopardi. Leopardi aveva già scritto molti dei suoi futuri celebri “Canti”. Ricordo L’Infinito (la sua voglia di andare oltre i confini fisici e bigotti del suo “natio borgo selvaggio”, Recanati), Il Canto Notturno (una sublime canzone in cui l’uomo e la natura sono in drammatica discordanza, forse la mia preferita in assoluto), A Silvia (amichetta di infanzia morta di tisi), A Se stesso, composta dopo la tormentata storia d’amore con Fanny Targioni Tozzetti. Era già il Leopardi delle “Operette Morali” e dello “Zibaldone di pensieri”, anche se le pubblicazioni avvennero postume. Era già un gigante imperituro, insomma, malgrado la costituzione debole e minuta.  E da Firenze bisognava fuggire.

Napoli accoglie “da Napoli” questo personaggio quasi mitico, che si presentava sempre con coloratissime vesti, soprattutto turchine, e amava camminare, fra le difficoltà motorie, confondersi, parlare e giocare con la parte più chiassosa e colorata della popolazione. Amava sostare nei Caffè – soprattutto il Caffè Due Sicilie e il Bar Trinacria -, amava i gelati e la pasticceria tutta, amava i frutti di mare, le cozze, le arselle, soprattutto i “cannolicchi”, mangiati sul lungomare. Un vero e proprio golosone: in un foglietto conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli un giorno arriverà ad annotare 49 piatti che ama di Napoli!

Napoli insomma nutre, con un incastro quasi magico, la vitalità castrata di Leopardi: una storia pressochè perfetta nella sua assoluta imperfezione. Napoli lo ribattezza affettuosamente il ranavuottolo, il ranocchietto (inutile spiegare perché), ma lo fa con bonaria complicità non disdegnata dal poeta. Il gobbo nella tradizione napoletana porta fortuna, e Giacomo rideva di questa goffa convinzione, ma non rinunciava a stare con gli scugnizzi, a farsi toccare la gobba, e giocava al lotto, dava i numeri, passava le serate nelle taverne. Preferiva quel grande teatro di strada alla compagnia dei “saccentuzzi” dei salotti, che non lo amava perché lo invidiava per il suo genio, per la sua mente da filosofo, la sua penna da artista, per i suoi modi gentili. Ha anche modo di sbeffeggiarli magistralmente nella poesia “I nuovi credenti”, definendoli cattolici per convenienza, ottimisti per stoltezza. A ogni modo, si deve all’odiato-amato editore napolitano Starita, la prima edizione de “I Canti” del 1835.

A Napoli ritrova anche un’altra Paolina, non la sua amatissima sorella, ma la sorella di Antonio Ranieri, che si affezionerà all’amico del fratello e ne trascriverà a bella tutte le poesie e le riflessioni del Leopardi napoletano.

Nei quattro anni di Napoli, Giacomo, Antonio e Paolina ogni tanto si trasferiscono da degli amici a Torre del Greco, sulle falde del Vesuvio. Giacomo passa molto tempo a riflettere e scrivere del senso della vita in un balcone che guarda il vulcano. E proprio nei giorni del suo soggiorno a Torre, il Vesuvio erutta. Giacomo osserva, come ha sempre fatto, l’arido vero, il nulla, l’abisso in cui ci troviamo, ma, per la prima volta – e qui sta il grande regalo di Napoli a Leopardi e all’umanità – Leopardi osserva il fenomeno distruttivo dell’eruzione, dalla prospettiva di chi reagisce, di chi prova a prosperare negli stenti, di chi riesce a odorare, a cercare la bellezza, accontentandosi dei suoli aridi e desertici. Lo fa dedicando la sua poesia sul vulcano che distrugge alla ginestra, al fiore del deserto, il fiore che sopravvive, e che profuma e fiorisce al di là di ogni tragedia.

Malgrado tutto, bisogna avere coraggio di vivere. C’è sempre una occasione di riscatto. Ecco qualche verso de “La Ginestra”, una delle più belle poesie di tutti i tempi, non soltanto italiana:

“Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo

di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. 

Leopardi morirà qualche mese dopo, il 14 giugno 1837, a 38 anni, durante una epidemia di colera (ma il colera non è stata la causa) che rendono inevitabilmente complesse anche le operazioni di sepoltura. L’amico Antonio dice di averlo sepolto nella Chiesa di San Vitale a Fuorigrotta, ma studi successivi sulle ossa riesumate pongono più di un dubbio. Quelle ossa sono state poi trasferite al Parco Vergiliano, accanto alla tomba di Virgilio, altro grande poeta dell’età antica. Altri sostengono che le spoglie di Leopardi furono portate nel Cimitero delle Fontanelle, nel quartiere Sanità.

Poco ci cala, in fondo. Il Ranavuottolo è per sempre commisto con la città di Napoli e il suo spirito circense, colorato, affettuoso e accogliente.