Il mirto, Maya e le epifanie.

Appena c’é da strogolare, le Upupole lo fanno…Si intravedono anche i tanti lavori da svolgere, ahinoi.

Dopo giorni piovosi e freddi, oggi – accolti da un ubertoso solicino – ci siamo potuti finalmente godere qualche ora all’aperto, a gingillarci in giardino!

Repente, vestito coi panni da agricoltore sabatino, professionista quindi solo negli indumenti, mi sono munito di una cassa per ascoltare un po’ di musica (godendomi poi i dolci graffi di Elisa, il piano lisergico e ipnotico di Tiersen e le parole mistiche e panistiche di Giovanni Lindo), impugnato la zappa e convinto finanche le Upupole a seguirmi, con la promessa – a bassa voce, senza farmi sentire dalla loro mamma – di permettere loro di giocare con l’acqua e la terra.

Il solito vento ci soffiava contro, ma stavolta con la grazia carezzevole di uno Zefiro dolciastro. Un diffuso cinguettio ha contribuito ad astrarci elevandoci in una rappresentazione post-bucolica, come fossimo stati tre pennellate di un dipinto en plein air di Monet.

Ho approfittato di questo lasso di tempo all’aria aperta per piantare il mirto, due pianticelle che ho premurosamente adagiato in buche certosine: loro la nuova dimora sotterranea dove spero prospereranno. In opera, mi sono scientemente inalato gli odori e i miasmi della natura (fintanto che l’allergia non arriva…): non ho neanche calzato i guanti per sentire e toccare lo stallatico e la torba (la pratica del panismo richiede qualche sacrificio!), strofinando anche ogni tanto le mani fra le foglie del mirto, la mia favorita fra le piante aromatiche. Ho anche scovato un lombrico, che ho lanciato schifato più in là, affinché non disturbasse questo idillio sensoriale.

Non so quali nostalgiche sinestesie mi accenda, il mirto, forse i remoti viaggi nelle lande bruciate di Sardegna quando ero piccolo e ci andavo coi miei, e il mirto era l’essenza di un liquore proibito, i profumi di un porceddu che rosolava aromatizzato e, soprattutto, la conquista di una spiaggia, sotto forma di una rada verde e bluastra di profumi salmastri che anticipava lingue di sabbia rosa e l’azzurro di un mare cicalecciante. Trenta anni fa, ricordo più ricordo meno. Tant’è. Il mirto mi piace ancora oggi moltissimo ed è stato proprio soddisfacente dedicarmi alla sua coltura e godere di remote epifanie grazie alle sue essenze balsamiche.

Con l’incidere delle ore, il vento si è fatto di nuovo forte. Le bambine giocando con l’acqua e la terra, ca va sans dire, si erano sporcate di fango.

Un fragoroso ritorno alla realtà. Fra urla e litigi, l’illusorio velo di Maya in cui ci eravamo immersi si è squarciato (accidenti a Schopenhauer) e siamo tornati bruscamente nella normalità domestica, uscendo come Mary Poppins dalla magia del quadro campestre e riappropriandoci della casa (che odorava adesso di pulizie pasquali, la Laura aveva approfittato della nostra assenza): sudati, sporchi, indolenziti (io e il mio coccige ancora uccio, soprattutto) ma contenti di questa prima breve uscita stagionale.

Il mirto nella scarpata che divide dalla strada!