L’ottobrata è il termine con cui in Toscana si definisce un periodo più o meno lungo, di solito di circa 10 giorni, di buona stagione, di temperature miti, di colori dolci e morbidi, di un una bellezza stordente e malinconica.
Le foglie virano al giallo e qualcuna già al rosso. Qualcuna cade. Si raccolgono frutti turgidi e ubertosi. Una volta questi giorni coincidevano anche con la vendemmia del Sangiovese, l’ultima fra le uve a essere raccolta, e i profumi dei mosti si confondevano con quelli dei giuggioli, dei corbezzoli, dei melograni, dei malli di noce, dei primi cachi e degli ultimi fichi.
Sono questi i giorni che permettono un esercizio psicologico sempre più importante per me: la connessione. Getto l’ancora nel porto sicuro della bellezza delle cose, dell’interazione virtuosa fra natura e uomo, del senso del finito e del precario che proprio in questa consapevolezza offre le prestazioni più elevate, dei canti del cigno sublimi e struggenti.
Questa domenica ne abbiamo approfittato per piantare un po’ di cavoli, dei radicchi e un paio di carciofi nell’orto dell’altalena arrugginita. La terra era morbida e piena di lombrichi. Più che un orto, è una attenzione alla ricerca del bello che appaga, a del tempo trascorso insieme senza distrazioni con le bambine e la Laura. Mi sono tolto anche lo sfizio di un piccolo gioco di riuso, con l’aiuto del mio suocero: avevo la vecchia testiera di un letto in ferro battuto che giaceva nel fienile. Mi è parsa come una bella fioriera. L’ho ancorata al muro della porcilaia. Ci ho messo un portavasi in ferro e sono andato al vivaio a cercare una piantina che si intonasse col colore oro della testiera e con la porta in legno rosa della porcilaia: l’edera. Al colmo della testiera in ferro, avevo due vecchi annaffiatoi di latta, che hanno completato il quadro. Il sole di ottobre, l’ottobrata, ha conferito la giusta luce. E un po’ di bellezza addizionale.